All’inizio la guerra in Ucraina sembrava contenere un messaggio “corroborante” per Taiwan e “deprimente” per la Cina. Una realtà, territorialmente piccola, poteva resistere a un’aggressione di un nemico ben più forte. Per Golia sconfiggere Davide, avventurandosi in una guerra aperta, non era così facile da farsi. Tre anni dopo, e con il ritorno dirompente sulla scena del presidente Usa Donald Trump, le carte sono cambiate. La guerra, che continua a insanguinare l’Ucraina, sembra ora recapitare un messaggio completamente diverso. Ed è proprio l’inquilino della Casa Bianca ad aver rovesciato il tavolo e cambiato direzione agli eventi. La diplomazia Usa vuole trattare direttamente con gli altri attori globali “forti”, Russia e Cina, mettendo in cima alla lista i propri interessi. E arrivando a sacrificare, se necessario, i terzi “incomodi”. Come l’Ucraina oggi e Taiwan domani. Nasce da qui la domanda che, eternamente, tormenta Taipei. In caso di invasione dell’“isola ribelle” da parte della Cina, Taiwan potrebbe contare sulla protezione Usa? Fino a che punto gli Stati Uniti sarebbero disposti a impegnarsi? E, soprattutto, a quale prezzo? D’altronde l’atteggiamento di Trump verso l’isola è quanto meno ambivalente. Come ricorda il Global Taiwan Institute, durante la prima amministrazione Trump (2017-2021), i legami tra Stati Uniti e Taiwan si sono rafforzati. Nel giugno 2017, l’amministrazione a stelle e strisce ha approvato una vendita di armi a Taipei per 1,4 miliardi di dollari. Altra tappa nell’ottobre 2018 e altro pacchetto di armi del valore di 330 milioni di dollari, “sdoganato” dagli Stati Uniti.
Durante i primi quattro anni di mandato del tycoon, il governo degli Stati Uniti ha autorizzato in tutto 11 accordi sulle armi con Taiwan, per un totale di 21 miliardi d i dollari. I venti da allora, però, sono cambiati. Così come è cambiata la retorica trumpiana. Che è diventata un vero e proprio cannoneggiamento. Il tycoon ha dichiarato pubblicamente che Taiwan dovrebbe destinare il 10 percento del Pil alla difesa (oggi ne spende circa il 2,5 percento). Ha poi accusato Taiwan di «rubare l’industria dei chip americana» minacciando di imporre tariffe sulle esportazioni di semiconduttori. Non solo. Il neoeletto presidente degli Stati Uniti è arrivato a dire che Taipei «dovrebbe pagare per la protezione» di Washington. Ma non basta. Un altro scossone per Taiwan arriva dal “caso” Groenlandia. Come sottolineano dal think tank Usa, Council on Foreign Relations, «l'ambizione di Trump di espandere il territorio degli Stati Uniti mina un principio fondamentale dell'ordine internazionale, vale a dire che i confini non dovrebbero essere modificati con la forza o la coercizione. Il fatto che gli Stati Uniti, l'architetto e il garante di questo ordine, stiano svuotando questa norma non fa che aumentare il rischio che altri Paesi cerchino di agire inseguendo le loro ambizioni territoriali. Tutto questo ha implicazioni dirette per Taiwan: se Trump può prendere la Groenlandia, perché la Cina non può prendersi Taiwan?». Quali carte restano in mano all’isola? Come rialzare le proprie azioni presso l’imprevedibile alleato? Taipei ha imboccato la strada dei semiconduttori.
Il gigante dei chip, la Taiwan Semiconductor Manufacturing Co (TSMC) ha annunciato che aumenterà i suoi investimenti negli Stati Uniti. Un malloppo da 100 miliardi di dollari: serviranno a costruire cinque nuovi stabilimenti “all’avanguardia” sul suolo americano. A Tapei non sfugge che un modo per “placare” Trump è proprio accelerare i progetti di investimento.
«È essenziale che Taiwan acconsenta al trasferimento di alcune tecnologie di produzione avanzate negli Stati Uniti, tra cui i chip a 4 nanometri, la cui produzione era prevista nel primo stabilimento TSMC in Arizona. Ciò è fondamentale per allentare le tensioni con Washington, poiché la Segretaria al Commercio degli Stati Uniti Gina Raimondo ha espresso preoccupazione per il fatto che «oltre il 90 percento dei chip avanzati utilizzati nel Paese siano fabbricati a Taiwan, il che porta a vulnerabilità e insicurezza per Washington», ricapitolano dal Global Taiwan Institute. Promuovere i legami proprio nel settore cruciale dei semiconduttori fornirebbe a Trump il tanto sospirato ritorno dei posti di lavoro americani. Se c’è un modo per Taipei di “corteggiare” gli Usa è questo. Basterà a fugare le inquietudini? Una cosa resta certa: Taiwan cammina su una corda tesa.

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