Caro direttore,
sono un medico, un ginecologo che per oltre 40 anni ha svolto il suo lavoro tra Ospedale e Consultori Familiari della mia Regione, sono un non obiettore di coscienza e un credente. Sono rimasto stupito, ma non sorpreso, dagli articoli di 'Avvenire' sulla Ru486, soprattutto domenica 23 agosto. La questione dell’aborto medico, chirurgico e farmacologico, presenta molti aspetti. Proverò ad affrontare i più rilevanti.
Nel commento di Marcello Palmieri si sostiene che i Consultori non siano stati istituiti per attuare la legge 194, che ancora non c’era, e cioè non sono stati istituiti per rendere praticabile l’Ivg. Questo è vero, ma ci si dovrebbe ricordare che la legge 194 nei primi articoli (2, 4, 5) chiama in gioco i Consultori per 'gestire' tutte le procedure che possono sostenere la donna in questa difficile fase della sua vita. È pur vero che la legge prevede che i Consultori siano chiamati a svolgere tutte quelle azioni atte a favorire una possibile scelta alternativa. Ma questo sempre «con il pieno consenso e nel rispetto della dignità della donna», cioè lontano da ogni atteggiamento di dissuasione e forzature più o meno velate e pronti a sostenerla fino in fondo nel caso la sua scelta fosse quella di interrompere la gravidanza.
Vi è poi in quell’articolo un’affermazione sbagliata: non è vero che la «legge vietava e vieta al Consultorio di fare da sé e che l’aborto può essere effettuato solo da una (diversa) struttura autorizzata». La legge dice una cosa diversa, e dice di più. E cioè che l’Ivg deve essere praticata, sì, in strutture autorizzate e l’art.8 ne fa l’elenco, ma sempre all’art.8 si dice espressamente che «nei primi novanta giorni gli interventi di interruzione della gravidanza dovranno altresì poter essere effettuati, dopo la costituzione delle unità socio-sanitarie locali, presso poliambulatori pubblici adeguatamente attrezzati, funzionalmente collegati agli ospedali e autorizzati dalla Regione». Quindi le nuove linee guida del Ministero della Salute semmai regolamentano una possibilità prevista dalla legge quasi 50 anni fa e non introducono novità particolari al riguardo.
Vi è poi il tema della sicurezza e della temuta contraddizione rispetto all’uso di questa metodica con lo 'spirito' della legge 194. Fa piacere leggere nell’articolo di Eugenia Roccella e Assuntina Morresi che tutte le polemiche che accompagnarono l’iniziale utilizzo della Ru486 e la sua «pericolosità » siano ormai un ricordo del passato e non valga la pena rievocarle – non perché oggi non sussista la necessità di un attento controllo sanitario e di un monitoraggio scrupoloso come per altro per tutti i farmaci e per le procedure mediche e chirurgiche – e che comunque la pubblicazione delle nuove linee guida prevede e riconferma. Nel testo si dice infatti: «Tutto ciò premesso, si raccomanda di effettuare il monitoraggio continuo e approfondito delle procedure di interruzione volontaria di gravidanza con l’utilizzo di farmaci, avendo riguardo, in particolare, agli effetti collaterali conseguenti all’estensione del periodo in cui è consentito il trattamento in questione. Tale monitoraggio sarà preso in esame anche ai fini della Relazione annuale del Ministro al Parlamento sulla attuazione della legge 194/1978, attraverso i dati correntemente rilevati dal Sistema di sorveglianza Ivg».
Detto questo, è un fatto che i dati – non solo internazionali – ci fanno ragionevolmente stimare che l’aborto farmacologico presenta forse alcuni effetti collaterali (sanguinamento, e dolore pelvico) un po’ più frequenti rispetto a quello chirurgico. Questo anche se, in genere, la raccolta di tali dati è fortemente limitata dal fatto che comprende unicamente una lista di eventi avversi, descritti in numeri assoluti e priva di stime di incidenza. Nel contempo l’aborto farmacologico non presenta quelle complicazioni seppure rare (perforazioni uterine, reazioni avverse legate all’uso degli anestetici) presentate dall’aborto chirurgico oltre ai rischi legati al ricovero ospedaliero anche in regime di day hospital (infezioni ospedaliere, Covid-19). Per non parlare dei costi economici.
La mortalità stimata per l’aborto farmacologico, inoltre, è del’1,1 per 100.000 mentre per quello chirurgico, quando l’interruzione è effettuata in condizioni di sicurezza, è di un caso per 100.000. Sono dati internazionalmente accettati e condivisi. I valori sono quindi pressoché gli stessi e questo argomento non dovrebbe prestarsi a propagande simmetriche e sempre strumentali e non rispettose delle evidenze. Che la procedura adottata poi sia in contraddizione con la legge 194 o che addirittura violi princìpi costituzionali risulta – a mio parere – una palese una forzatura. Il fatto che tale procedura abbia richiesto linee guida e che già oggi sia utilizzata sotto controllo medico, e che i farmaci siano somministrati seguendo protocolli consolidati, gli accertamenti vengano eseguiti con particola attenzione e il 'circuito' sia quello previsto dalla legge, stanno a dimostrare che non siamo in presenza di nessun vulnus istituzionale. Quello che cambia con queste nuove linee guida è solo la scomparsa dell’obbligatorietà del ricovero.
Vi è poi un terzo elemento da considerare che è, a mio parere, il più contraddittorio e denso di problematiche antropologiche ed etiche e forse la vera ragione del contendere. Il tema cioè che per brevità nomineremo «il rischio di privatizzare un atto sanitario, ma dalla valenza non esclusivamente sanitaria». Personalmente non credo al fatto che gli atti procreativi debbano essere considerati una questione che riguarda solo le donne o al massimo loro e i loro compagni e non abbiano anche una risonanza sociale, ma va valutato e condiviso anche il fatto che storicamente questa risonanza abbia voluto dire una non completa autonomia del corpo femminile anzi un suo uso strumentale e schiavo di logiche di potere variamente declinate nelle diverse società e nelle diverse epoche. E io, nei miei lunghi anni di professione, ho imparato ad apprezzare la sapienza con cui le donne sanno amministrare il proprio corpo.
Ginecologo