Ansa
Continua a suscitare perplessità la decisione ministeriale di coinvolgere i consultori familiari nella pratica abortiva. La rete consultoriale nasce con la finalità esattamente opposta: fornire un’alternativa alle donne che pensano di trovarsi costrette dalle circostanze più varie a spegnere in grembo la vita del proprio bimbo. È quanto emerge dalla legge 405 del 1975, che ha istituito i consultori. La sua prospettiva risulta ben chiara fin dall’articolo 1, che tra gli scopi di queste strutture indica «la tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento».
Attenzione: in tutti gli 8 articoli di cui si compone il testo l’interruzione di gravidanza non è mai prevista: si parla solo di contraccezione. È vero: la prima legge che ha consentito, in un numero di casi (almeno formalmente) ristretto, l’interruzione volontaria della gravidanza è la 194 del 1978, varata dunque 3 anni dopo quella che ha istituito i consultori. Ma è altrettanto innegabile come anche questa seconda norma non abbia inteso chiedere la collaborazione di queste strutture per la soppressione del bimbo nel ventre della gestante. Anzi. «I consultori familiari – si legge all’articolo 2 – assistono la donna in stato di gravidanza [...] contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza».
Proprio per raggiungere questo fine la norma dispone che le stesse strutture «possono avvalersi [...] della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita».
L’obiettivo pratico sembra ben chiaro: dal momento che le risorse economiche, anche allora, non bastavano a rimuovere i problemi in cui versavano e versano le gestanti, si dava e si dà la possibilità che i consultori si avvalgano della grande rete del volontariato, come quello grande e generoso che anima i Centri di aiuto alla vita. A fugare ogni dubbio circa le finalità di queste strutture, l’articolo 5 della stessa legge 194/78 dispone che esse, quando si trovano innanzi una donna che chiede l’interruzione volontaria della gravidanza, «hanno il compito in ogni caso [...] di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta [...] di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero all’interruzione di gravidanza».
Allo stesso modo, qualora la donna si rivolgesse al proprio medico, questo dovrebbe informarla «sui diritti a lei spettanti e sugli interventi di carattere sociale cui può fare ricorso, nonché sui consultori e le strutture socio-sanitarie». E quand’anche tutto ciò fallisse, non restando altro se non la soppressione del feto, la legge vietava e vieta al consultorio di fare da sé: l’aborto, infatti, può essere effettuato solo da una (diversa) struttura autorizzata. Alterare questa disciplina con una semplice circolare – come fanno le nuove linee guida del Ministero della Salute che disciplinano il ricorso alla pillola abortiva –, e non attraverso una modifica parlamentare della legge vigente, darebbe vita a una violazione della Costituzione.