C’è una logica precisa nei due minuti di differenza con cui i missili russi Iskander hanno colpito Sumy, nella Domenica delle Palme. Il primo si è abbattuto sul centro della città alle 10.11 locali, il secondo alle 10.13. Non è un caso: è ciò che si fa, dopo un primo attacco, per colpire chi arriva in soccorso ai feriti. Cioè, per raddoppiare le vittime. Un “errore” i missili sulla Domenica delle Palme ucraina, il giorno in cui anche i vecchi più restii a uscire vanno in chiesa per riportarne a casa il rametto di ulivo? Uno schiaffo, non un errore: a tanto parlare e ripetere di pace, alle trattative di mesi, a quella stretta di mano al Cremlino, l’11 aprile, fra Putin e l’inviato di Trump, Witkoff. Una stretta di mano - un principio, si poteva sperare. E invece, beffardo, l’attacco in pieno giorno a una città inerme, nel giorno delle Palme. Micidiali bombe a grappolo su chi, con l’abito buono, andava a Messa, alla vigilia della Settimana Santa. Le avete viste, le immagini: il fumo e il fuoco nelle strade, macerie, un autobus sventrato, e un vecchio che in piedi da fuori si appoggia al finestrino infranto del bus e piange, piange disperatamente. Chi aspettava quel vecchio, chi c’era sull’autobus? Un figlio, un nipote? Ed è solo un singolo particolare del 13 aprile a Sumy - ma sotto ogni particolare di quelle foto sta un pozzo di dolore.
Velocemente, pietosi, i soccorritori hanno coperto i morti con teli grigi. Nei video i lembi di quei teli si muovono, che là sotto dei feriti siano ancora vivi? Ma no, è soltanto il vento. I morti giacciono immobili. 34, di cui 2 bambini, e 117 i feriti e mutilati.
Siamo da tre anni abituati a stragi anche più sanguinose. Ma questa si è compiuta, con freddo calcolo, nella domenica che precede la Pasqua, la massima festa cristiana. Questa è stata ordinata da un uomo che al Natale ortodosso abbiamo visto, compunto, in chiesa. Che ora, dopo una strage così mirata, si possa ancora credere alla volontà di pace di Putin, pare ingenuità eccessiva. Come si fa la pace, con chi non vuole la pace?
Nella stessa mattina a Gaza, senti al tg, un bombardamento ha distrutto uno degli ultimi ospedali in funzione. Che festa, questa domenica, ti dici con amarezza e in un affiorare di cinismo: che festa, davvero. Bombe sulle Palme: ad uccidere, e a incrinare la fede chi crede.
La speranza cristiana però è infinitamente più grande di quel certo benigno ottimismo con cui a volte la si confonde. «Andrà tutto bene», recitavano dalle finestre di mezza Italia dei cartelli colorati, nel 2020. Invece il Covid, che strage: non è andato affatto “tutto bene”. La speranza cristiana tuttavia non è quella, non un farsi coraggio, né un augurarsi di cavarsela alla meno peggio.
La nostra speranza, è ben altro. Dopo quella domenica di trionfo di duemila anni fa Cristo fu arrestato, abbandonato dai suoi, condannato a morte: e a quale terribile, ignominiosa morte. Umanamente parlando, a Gesù Cristo non andò affatto bene. E che silenzio atterrito doveva gravare sugli apostoli, quando fu sepolto: nessuna notte mai più buia di quella. Quando tutti se ne furono andati rimase Maddalena, inconsolabile. Fu lei a vederlo per prima, per prima a gridare “Rabbi!” con la gioia inesprimibile di chi ritrova un padre, un figlio che credeva perduto.
La speranza della Pasqua è questa: che Cristo è risorto, che ha vinto la morte. Che la morte non opprimerà gli uomini per sempre. Se, pure cristiani, a quel sepolcro vuoto non crediamo davvero, valgono per noi le parole di Paolo ai Corinzi: «Se Cristo non è risuscitato, vana è la vostra fede».
Questo è il discrimine della nostra speranza: Lui è risorto. Questa la speranza che nessuno ci può togliere, nemmeno lo sfregio alle Palme, né altre remote o prossime stragi, né l’orizzonte incenerito delle macerie ucraine, o quello terrifico di Gaza. Questa mole di crudeltà e sofferenza che pure ci sconvolge, e ci immedesima nel dolore di altri uomini, e ci spinge a portare soccorso, non può incrinare la nostra più profonda speranza: Cristo risorto, veramente risorto.

© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: