Gentile direttore,
leggendo l’articolo «Aborto. Ru486, il controllo che non c’è» di Eugenia Roccella e Assuntina Morresi mi è venuto il dubbio di aver letto e commentato in tutti questi anni Relazioni ministeriali al Parlamento sulla legge 194/1978 completamente diverse da quelle osannate nell’articolo. Prima ancora di leggere l’articolo avevo fatto una riflessione proprio in merito all’incompletezza dei dati offerti nonostante l’osannato sistema di rilievo, che renderebbe impossibile – se non voluta o tollerata! – la persistente carenza di dati essenziali presenti in qualsiasi scheda di dimissione ospedaliera (Sdo), che rende pubblica.
Rileggendo la delibera Aifa dell’11 agosto 2020 e la determina Aifa del 12 agosto 2020 ho in entrambi trovato scritto quanto segue: «Considerati i dati del sistema di sorveglianza delle interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg) farmacologiche, inclusi anche nelle Relazioni sull’attuazione della legge 22 maggio 1978 n. 194 del ministro della Salute al Parlamento, da cui si evince la comparabilità delle procedure medica e chirurgica, in termini di efficacia e sicurezza, evidenziando la sicurezza del farmaco anche per trattamenti effettuati oltre il termine dei 49 giorni, nonché l’assenza di differenze nel profilo di sicurezza tra le donne ricoverate e quelle che avevano fatto ricorso alla dimissione volontaria dall’ospedale».
Ciò che ha portato alla modifica delle linee guida sono stati, cioè, i dati offerti dalle relazioni al Parlamento del ministro della Salute sull’applicazione della legge 194/1978. A mio parere non esiste niente di più fuorviante per chi deve prendere decisioni serie e scientificamente fondate dei dati offerti dalle Relazioni annuali al Parlamento, basta dare un rapido sguardo alla tabella riassuntiva dei dati non rilevati nell’ultima Relazione al Parlamento, che ho curato personalmente, per rendersi conto di quella che considero la scarsa attendibilità di tutta la Relazione, che nonostante sia stata presentata questa volta con un ulteriore ritardo di sei mesi rispetto ai consueti ritardi non ha offerto segni di serietà scientifica.
Ma veniamo ai dati su cui probabilmente si sono basati gli esperti dell’Aifa e del Consiglio superiore di Sanità: nella tabella 27 ' Ivg e Complicanze', oltre ai 1.621 dati non rilevati troviamo 188 casi di emorragia, pari al 2,5 per mille, ma a pagina 51 della stessa Relazione leggiamo che «nel 96,5% degli aborti farmacologici non sono riportate complicanze immediate» – nel 3,5% (551) sì – «e solo nel 2,4% dei casi (378) è stato necessario ricorrere all’isterosuzione o alla revisione della cavità uterina per terminare l’intervento». Se le fonti di informazione sono le Relazioni annuali al Parlamento anche le morti in seguito ad aborto volontario a mio parere sono notevolmente sottostimate, infatti solo nella Relazione del 2016 si parla di due morti. La prima morte avvenuta in Piemonte: una donna, che dopo aver assunto la Ru486 si è dimessa volontariamente e si è ricoverata due giorni dopo per il trattamento con le prostaglandine secondo il protocollo e in attesa dell’espulsione del figlio ha avuto un’improvvisa crisi cardiocircolatoria ed è morta (sepsi streptococco A). La seconda morte è avvenuta in Campania: la signora all’ottava settimana di gravidanza si ricovera per essere sottoposta a Ivg chirurgica previa preparazione della cervice con prostaglandine, ma per l’insufficiente dilatazione cervicale la procedura non viene completata e viene fatta un’altra applicazione di prostaglandine. Sottoposta a ecografia ostetrica viene accertata la morte del bambino, ma non la sua espulsione per cui la donna viene invitata ad un ricovero prolungato, che alle ore 19 decide di interrompere e di ritornare a casa. Dopo due giorni la paziente torna al pronto soccorso con dolori addominali e febbre a 39° e nonostante i trattamenti farmacologici e chirurgici nelle 24 ore successive al ricovero muore.
Nella relazione ministeriale del 2017 è riportata una morte avvenuta nel 2016 in Campania senza ulteriori informazioni.
Leggendo il Primo Rapporto ItOSS sulla mortalità materna (Roma 2019), che si riferisce solo agli anni 2013-2017 e riguarda appena 8 Regioni per il 73% dei nati vivi, scopriamo che oltre alle 3 morti prima descritte ce ne sono altre due (una per emorragia massiva e anomalo impianto placentare; una classificata 'illegale' senza ulteriori informazioni). Nel Rapporto regionale sulla mortalità e morbosità materne in Emilia Romagna 2008-2016 scopriamo che c’è un’altra donna di 42 anni morta dopo Ivg chirurgica con contemporaneo inserimento di Iud (spirale) per endocardite stafilococcica ed embolismo settico 30 giorni dopo l’aborto volontario chirurgico (si noti: le morti avvenute entro il 42° giorno dal parto o dall’aborto sono considerate mortalità materne precoci).
Facendo un calcolo su questi dati certi e considerando la sola morte del Piemonte attribuibile all’aborto volontario farmacologico abbiamo una mortalità dello 0,78/100.000 Ivg farmacologiche contro 0,067/100.000 ivg chirurgiche, cioè la mortalità per aborto volontario farmacologico è 11,64 volte maggiore di quella per Ivg chirurgica, per cui è falso affermare, come è stato fatto dall’Aifa, «la comparabilità delle metodiche medica e chirurgica, in termini di efficacia e sicurezza, ... nonché l’assenza di differenze nel profilo di sicurezza tra le donne ricoverate e quelle che avevano fatto ricorso alla dimissione volontaria dell’ospedale». La morte del 2014 in Campania – pur considerata tra le Ivg chirurgiche – ci dice chiaramente che somministrare farmaci come le prostaglandine e permettere il ritorno a casa per dimissione volontaria è molto pericoloso, e può essere letale. Come può essere letale tollerare passivamente il commercio di prostaglandine per l’aborto illegale più volte documentato anche in trasmissioni televisive.
Mi auguro che il Css abbia tenuto in considerazione fonti scientifiche molto più attendibili e che quanto prima il Governo le voglia mettere a disposizione dei cittadini.
Ginecologo, vicepresidente Aigoc