Ma davvero la rovina della scuola italiana è l’«ideologia dell’inclusione»? Lo ha sostenuto, con robusta convinzione, Ernesto Galli della Loggia sul 'Corriere della Sera' di sabato 29 aprile, in un articolo in cui ha scritto che una delle massime iatture del nostro sistema di istruzione è la tendenza a promuovere più che a bocciare.
Chi nella scuola lavora e vive quotidianamente la fatica di un mestiere certamente difficile, ma sempre positivamente sfidante, sa che uno dei suoi compiti principali è quello di trovare le strade per portare gli studenti, ogni studente, al traguardo, alla meta, cioè al raggiungimento degli obiettivi che si sono fissati in sede di programmazione. La scuola italiana negli ultimi anni ha fatto molti passi avanti in questo senso. Gli insegnanti hanno capito che per il successo della propria azione formativa è necessario mettere al centro non tanto i 'programmi' quanto i ragazzi. E chi li conosce, i ragazzi, sa che non ce n’è uno uguale a un altro. Come del resto accade con gli adulti: ma nell’infanzia e nell’adolescenza con dosi di fragilità per forza di cose maggiori. Una classe scolastica - ha scritto lo psichiatra Vittorino Andreoli - dovrebbe essere concepita come un’orchestra musicale, in cui ciascun membro suona il proprio strumento, diverso da quello del vicino, ma tutti cooperano alla stessa melodia.
Dunque l’inclusione è un’«ideologia» nefasta? O piuttosto è un dovere, una necessità etica prima ancora che 'amministrativa'? Anche perché il contrario dell’inclusione si chiama esclusione. E quest’ultima è la negazione di un vero approccio educativo. Bisogna però capire che cosa significa veramente includere. Non si tratta certo di dare un lasciapassare indiscriminato a tutti per una promozione d’ufficio all’anno scolastico successivo. Includere vuol dire, al contrario, portare tutti i ragazzi, o quanto meno il maggior numero di ragazzi possibile, ai cosiddetti «obiettivi minimi», raggiunti i quali si è in grado di seguire con profitto il successivo anno di corso. Ma questo può essere fatto, quando la situazione del ragazzo lo richieda, anche attraverso percorsi differenziati. Per arrivare a Roma, si possono prendere strade diverse: l’autostrada del Sole, la Via Aurelia, la statale o la provinciale, magari anche, a piedi, un pezzo della Via Francigena. Ma è sempre a Roma che arriviamo, sebbene magari un po’ dopo.
Forse l’unica forma di esclusione che potremmo accettare a scuola è l’autoesclusione, quella cioè di che decide di non impegnarsi, di non studiare, di non aderire al patto educativo. Ma dico 'forse' e uso il condizionale perché anche in questo caso, prima di pronunciare la 'sentenza definitiva', abbiamo sempre il dovere, come docenti, di approfondire le cause di simili atteggiamenti. Non per una forma di giustificazionismo o di buonismo a tutti i costi, ma perché oggi la scuola è chiamata a farsi carico della complessità del mondo che la circonda. Sono finiti - che ci piaccia o no - i tempi di un arroccamento autoreferenziale in cui l’istituzione scolastica faceva parte per se stessa.
Quando si parla di scuola, sono tra quanti non amano molto il concetto di 'selezione', poiché esso presuppone a priori che ci debba essere una certa quota la quale debba rimanere esclusa. Mi vedo anch’io come un educatore più che come il responsabile di un ufficio del personale chiamato a 'scegliere' alcuni a scapito di altri. Preferisco che si parli, questo sì, di serietà e di autorevolezza. Perché la mia professionalità consiste anche nella capacità di farmi carico delle problematiche dei ragazzi che mi sono stati affidati. Solo a questo punto posso, in coscienza, anche decidere con i miei colleghi, per quanto possa essere una decisione difficile e in alcuni casi persino dolorosa, di non ammettere uno studente alla classe successiva. Perché è vero - questo sì - che una scuola che manda avanti tutti in modo indiscriminato per una sorta di accomodante lassismo sarebbe una scuola non autenticamente democratica, in quanto, a cascata, non farebbe altro che determinare il perpetuarsi delle sperequazioni sociali. Ma ciò non è quanto accade oggi nella scuola che conosco. Posso assicurarlo, come posso assicurare a Galli della Loggia e quanti ragionano come lui, che per avere un’istruzione di ottimo livello non serve mandare i figli alle scuole straniere o direttamente all’estero. Sono anzi convinto - sulla scorta di quanto ho visto personalmente e di quanto hanno documentato tanti miei studenti di ritorno dall’esperienza di un anno di liceo all’estero - che studiare in Italia resti un ottimo investimento.