Ritornano oggi 3 maggio le famose o famigerate prove Invalsi a partire dalla scuola primaria. Introdotte dalla ministra Gelmini, non hanno mai smesso di suscitare polemiche. Pretendono, come tutti i sistemi basati sul criterio della risposta esatta, di fotografare l’apprendimento degli alunni in un preciso momento e di comparare la fotografia ottenuta a una immagine corretta. Se rispondi 'x' hai imparato; se rispondi 'y' no. Il problema è che, sulla base delle odierne teorie dell’apprendimento, la conferma che un alunno conosca o non conosca un determinato contenuto in realtà non ci dice nulla rispetto al suo processo di apprendimento. L’apprendimento non funziona per tutti allo stesso modo, e non è nemmeno un percorso lineare.
Nell’imparare contano gli errori, le esperienze pregresse e quelle possibili, le riorganizzazioni, l’evolvere delle risorse personali che non sempre emergono subito. Come può una prova standardizzata valutare l’apprendimento nelle svariate condizioni che si presentano comunemente nella scuola italiana, come il bambino straniero che in seconda primaria presenta una competenza linguistica limitata rispetto all’italiano. Nessuna valutazione che si fondi sulla risposta esatta potrà mai intercettare i progressi, magari significativi, di alunni che non rientrano negli standard definiti a priori. Prove del genere possono solo verificare uno status quo rispetto a un modello generico e generale, o rispetto al livello complessivo della classe, ma per la verifica dell’apprendimento effettivo individuale sono più importanti i progressi compiuti che non il risultato assoluto.
Questi sistemi valutativi concorrono a sviluppare sfiducia e disaffezione nei confronti del sistema scolastico e spesso creano negli alunni convinzioni disfunzionali ('Io non capirò mai la matematica' 'L’importante è il voto') che, invece di stimolare la naturale predisposizione infantile a imparare, la frenano e mortificano. Sono sistemi che discriminano perché incapaci di riconoscere gli sforzi compiuti dall’alunno nel corso della frequenza scolastica. Nel cinquantesimo di 'Lettera a una professoressa' della Scuola di Barbiana, non è esattamente di buon auspicio. Neanche la pretesa di poter fare una valutazione realistica e oggettiva del sistema scolastico nazionale appare legittima, anche perché succede che la faccenda Invalsi finisca all’italiana: insegnanti che aiutano gli alunni, intere classi che si assentano il giorno delle prove.
La scuola ha bisogno di un sistema di valutazione davvero fondato sulla conoscenza che abbiamo oggi di come funziona l’apprendimento. Prima di tutto, c’è l’errore. La possibilità di sbagliare e quindi di procedere a una riorganizzazione delle proprie capacità è un elemento fondamentale di un apprendimento efficace e duraturo. Poi, ci sono: la possibilità di fare esperienza diretta e concreta; di stimolare sorpresa e scoperte; di attivare domande dentro percorsi da fare in autonomia.
Viceversa le domande retoriche, che verificano la correttezza rispetto a uno standard, non consentono di osservare la ricchezza e le potenzialità di un processo unico e personale. Infine, va sostenuto il valore dell’imitazione (pensiamo alle recenti scoperte dei neuroni specchio) e del gruppo come crogiolo di interazioni contagiose. Servirebbe un sistema di valutazione in grado di raccogliere e giudicare i progressi evolutivi di ciascun alunno, capace di tener conto dei diversi punti di partenza e in grado di rapportarsi alle loro effettive potenzialità.
Chiamo questo tipo di valutazione con il nome di valutazione evolutiva che, raccogliendo i punti di partenza degli alunni, sappia con gradualità verificare i progressi personali nell’apprendimento. Se l’Invalsi si dedicasse a un seria ricerca in questo campo e si sforzasse di individuare e proporre sistemi davvero innovativi potrebbe essere per la scuola italiana una vera risorsa e non un motivo di ulteriore polemica e sfiducia.
*Pedagogista