Soltanto negli ultimi giorni: 117 annegati nel Mediterraneo, e 53 tra il Marocco e la Spagna. 393 riportati in Libia, nei centri in cui secondo l’Onu si registrano «privazione della libertà e detenzione arbitrarie in centri ufficiali e non ufficiali; tortura, compresa la violenza sessuale; rapimento per riscatto; estorsione; lavoro forzato; uccisioni illegali». Ma «tutti sono sani e salvi», fa sapere il ministro dell’Interno, perché «la collaborazione funziona». E ancora, 47 salvati in mare dalla "Sea Watch", adesso nel Mediterraneo in mezzo a una tempesta. Fanno rotta verso la Sicilia, ma i nostri porti pur aperti per loro devono risultare chiusi.
Numeri con tre cifre, deportazioni e morte all’ingrosso, come si parlasse di roba, di cargo carichi di container pieni di merce. E, in Italia, il Cara di Castelnuovo di Porto, dove davvero i migranti imparavano l’italiano e i bambini andavano a scuola, sgomberato in pochi giorni. Caricati su un pullman all’alba: gente che si era visto riconosciuto il diritti alla "protezione umanitaria" cacciati con uno zaino in mano, senza conoscere la meta. I bambini, portati via senza nemmeno salutare le maestre. Una brutalità cui non siamo abituati. Ma, per lo più, stiamo a guardare. Alcuni francamente addolorati.
Altri, smossi da certe immagini, perplessi, ma per poco: poi di nuovo distratti. Secondo i sondaggi però oltre il 30 per cento degli elettori continua a approvare la linea del «la pacchia è finita». Qualcuno che mancasse da qui da anni, e tornasse, leggerebbe certi titoli con incredulità. È normale, è ragionevole che ciò che accade non susciti una protesta corale, un riempirsi di piazze? Come un gran sonno. Il Papa domenica, all’Angelus, ha ricordato gli uomini, le donne e i bambini morti in mare senza soccorsi. Ancora Francesco, in volo verso Panama, parlando del muro del Messico ha commentato, dolente: «La paura ci rende pazzi». Quel muro che si spinge fin dentro l’oceano, monumento all’ossessione dell’Occidente: l’invasione.
L’incubo collettivo di orde di poveri che, come cavallette, vengano a occupare il nostro territorio. A rubarci il pane, mentre già siamo impoveriti, già temiamo per il nostro futuro. «Prima gli italiani!» ( le parole d’ordine per sedurre le folle devono essere semplici e facilmente ripetibili, senza bisogno di pensare). La paura toglie la ragione e dà il primato alle viscere, a quel moto antico in noi che pensa solo alla sopravvivenza propria. La paura rende pazzi, ci dice il Papa: in tre parole, la voce di una coscienza umana e cristiana.
Richiamo lucido a un mondo civile che sta perdendo la bussola, e la memoria di un lungo cammino. Muri fin dentro l’oceano, navi stipate di uomini e bambini riscaricate come ghiaia sulle rive della Libia. Prigionia, stupri, dicono i tg che ancora non si sono allineati. Qualcuno cambia canale. Qualcuno, forse molti, per un momento sussultano: secondo un sondaggio di ieri, 60 italiani su 100 si dicono contrari alle deportazioni in Libia. Qualcosa in questa nuova brutalità contraddice la nostra storia, la nostra memoria. E, tuttavia, restiamo a guardare.
Quindici giorni fa in Calabria, a Torre Melissa, quando una barca piena di migranti curdi si è ribaltata a poca distanza dalla costa, i cittadini si sono gettati in mare. Hanno tratto a terra 51 persone, fra cui donne, e quattro bambini, uno appena nato. Li hanno ospitati, scaldati, sfamati. Questa è l’Italia, quella che c’è e che vorremmo, quella che eravamo capaci di far vedere e sentire al mondo.
Perché fra trent’anni forse, quando il tempo avrà con fatica creato nel nostro Paese un amalgama fra chi c’era già e chi è arrivato da lontano, sui libri di storia delle scuole si racconteranno questi giorni. E i nipoti di quelli delle barche, dei campi libici, gli eredi dei sommersi e dei salvati chiederanno ai figli dei nostri figli: ma voi italiani, dove guardavate? Sarà difficile allora, e amaro, ricordare quel sonno, quella pazzia fatta di indifferenza e paura mischiate, inacidite. Sarà aspro allora, ricordare, e affiorerà, ombrosa, la vergogna.