Matteo Salvini schierato con il Partito popolare europeo alle elezioni di maggio. Potrebbe sembrare uno scherzo… di Natale, se non fosse che è stato lo stesso leader della Lega a fare balenare questo scenario con una battuta sibillina: «Accordo con il Ppe? Ci si sta lavorando». L’autoproclamato punto di riferimento dei sovranisti europei potrebbe dunque abbandonare il progetto di ribaltare gli equilibri dell’Europarlamento, con il quale voleva mettere in minoranza le due tradizionali famiglie dei popolari, appunto, e dei socialisti democratici.
Niente è scritto, e la massima cautela è dovuta nel trarre conclusioni da una dichiarazione lasciata cadere in una pausa dei frenetici lavori al Senato sulla Manovra, vero obiettivo del vicepremier in queste ore. Tuttavia, è un’uscita, quella di Salvini, che sarebbe ugualmente sbagliato sottovalutare. Essa viene a inserirsi in un mosaico che si è andato componendo rapidamente, e sorprendentemente, nelle ultime settimane. Un mosaico meritevole di un’osservazione attenta.
C’è stato innanzitutto il braccio di ferro con la Ue sul deficit italiano. Una partita che il Governo non ha potuto vincere di forza come pretendeva. Sui mercati azionari e in termini di spread l’annuncio del 2,4% ci è costato un’enormità, come ha rilevato anche Romano Prodi in un’intervista ad “Avvenire”. E l’avvio della procedura di infrazione – cercata con propagandistica ostinazione – avrebbe peggiorato la situazione, con un peso supplementare di decine di miliardi. Il governo si è reso progressivamente conto che il confronto non era sostenibile. E ha dovuto venire a patti con la Commissione.
Non è stata una sconfitta totale della coalizione giallo-verde, si badi. A ben vedere, sulle cifre ha ceduto più Bruxelles di quanto abbia fatto Roma. Ma la lezione per l’esecutivo è stata chiara. Siamo nella Ue e nell’euro, i vincoli oggettivi (insieme ai benefici) non si possono facilmente superare, né ha davvero senso farlo. Nello stesso tempo lasso di tempo è emerso che i sovranisti di oltrefrontiera non sono così forti e non sono così coesi.
La protesta dei “gilet gialli” è stata una fiammata che va spegnendosi e, soprattutto, non si salda con il Raggruppamento nazionale di Marine Le Pen, potenziale grande alleata di Salvini. Inoltre, la protesta non ha varcato, come qualcuno sperava, i confini di Francia. Solo qualche piccolo focolaio senza durata.
E poi da Budapest sono arrivare quelle immagini inedite e, per qualcuno, preoccupanti. Proteste di piazza, l’opposizione a Orbán rianimata e compatta contro la “legge sullo schiavismo” che introduce straordinari lavorativi pagati a rate triennali, segno che le politiche di chiusura alla manodopera straniera voluta dal premier che guida il gruppo di Visegrad sono dannose per il Paese. E, improvvisamente, anche il mentore di tutti i populisti, quel Donald Trump che ha donato il suo ex ispiratore Steve Bannon alla causa sovranista europea, si trova in difficoltà crescenti sul fronte interno e su quello della politica estera.
Piccole crisi passeggere come in questi quasi due anni di presidenza? Forse qualcosa di più, se stavolta cade anche Wall Street e l’ottimismo economico che ha accompagnato il tycoon repubblicano alla Casa Bianca può scemare insieme all’arrivo dal primo gennaio di una Camera dei rappresentanti a maggioranza democratica.
È quindi già in fase calante l’onda populista che sembrava in procinto di travolgere l’Europa? Troppo presto per dirlo. Ma se prospetta di cambiare piani un politico astuto come Salvini, che sa ben cogliere gli umori e i cambi di tendenza nell’opinione pubblica, gli indizi visti in precedenza possono diventare una prova. Le prossime settimane ci diranno qualcosa in più sulla direzione in cui tira il vento. E se vedremo Salvini e Juncker (ammesso che non lasci la politica europea) nello stesso schieramento. Certo, ci sarebbe, per il leader leghista, molto da cambiare, nei toni e nella sostanza, a meno che non sia il Ppe a mutare definitivamente pelle restringendo ancor più la sua anima cristiano-democratica.