La fine della tregua, fallimento programmato
sabato 22 marzo 2025

Non si può che provare un senso di sgomento, unito all’indignazione, per la ripresa dei bombardamenti indiscriminati israeliani su Gaza. Non vi è alcuna giustificazione strategica o di sicurezza per queste nuove stragi di civili che sopravvivono fra le macerie, perché altro non rimane nella Striscia. Si è detto che gli attacchi sono ripresi per il fallimento dei negoziati che dovevano portare alla fase due. Non è così: vi è stata la deliberata determinazione del primo ministro israeliano, Bibi Netanyahu, di non procedere oltre con le trattative, una volontà evidente già nelle ultime settimane.
Perché continuare i colloqui di pace avrebbe portato a dover affrontare una soluzione politica di medio-lungo termine per Gaza; soprattutto, avrebbe inevitabilmente costretto il governo di Tel Aviv a discutere del futuro di tutti i territori palestinesi, riportando sotto i riflettori il tema – inaccettabile per la destra israeliana – di un futuro Stato palestinese. In fondo, la tregua concessa riluttantemente da Netanyahu era stato più un regalo al nuovo presidente statunitense Trump che una vera sua volontà. Ora, con Washington tutta concentrata sui negoziati con la Russia per la questione ucraina e con un presidente statunitense che immagina una nuova “Riviera di Gaza”, la scelta di riprendere il conflitto.
Va detto che Hamas ha per settimane insensatamente provocato Israele, con gli indegni spettacoli allestiti per il rilascio degli ostaggi: i certificati di rilascio dati su palchi celebranti l’organizzazione islamista, gli ostaggi costretti a fingersi grati, le divise e le auto nuove fiammanti. Una messa in scena di grande effetto, per fingere che Hamas non abbia che l’ombra della forza che mostrava in passato, ma controproducente, dato che ha esasperato gli israeliani.
Non è tuttavia questo che ha portato alla ripresa dei massacri di civili palestinesi. Le vere ragioni risiedono nel cinico populismo di Netanyahu e nella pericolosa ideologia dell’ultra-destra nazionalista e religiosa. Il primo ministro, come noto, è detestato da una parte importante della società israeliana. Accusato continuamente di corruzione e malversazione, osteggiato per i suoi impulsi autoritari e per voler smantellare l’indipendenza della magistratura e dei servizi di sicurezza, di nuovo in caduta nei sondaggi politici, si era indebolito per l’uscita – all’indomani della tregua – del rappresentante più impresentabile della destra più estrema, Itamar Ben Gvir, che ricopriva la carica di ministro della Sicurezza nazionale. Questi, non casualmente, ha deciso di rientrare nella maggioranza proprio all’indomani della ripresa dei bombardamenti.
Ragioni interne, quindi, dato che è più difficile sfiduciare chi guida il paese durante un conflitto. Ma questo tatticismo brutale spiega solo in parte una scelta che ha radici più profonde e pericolose: il governo di ultra-destra israeliano accarezza l’idea di profittare dei quattro anni di presidenza Trump, che lo sostiene incondizionatamente, per erodere ulteriormente i territori palestinesi. E non si tratta solo di Gaza, il vero loro interesse risiede in Cisgiordania, ove proseguono l’espansione delle colonie illegali israeliane e le violenze contro la popolazione palestinese. Il sogno dei fanatici religiosi e degli iper-nazionalisti che sostengono Netanyahu è ricostituire l’Israele biblico, occupando la Cisgiordania e cacciando milioni di palestinesi.
Non si tratta solo di impedire la nascita di uno Stato palestinese, il loro obiettivo è molto più ambizioso: si tratta di procedere a una annessione, almeno de facto, dei territori fino al Giordano. Già oggi, l’Autorità Nazionale Palestinese non controlla che una frazione della Cisgiordania, dei coriandoli di terra frammentati e scarsamente collegati gli uni agli altri, rendendo poco immaginabile l’idea di costruirvi uno stato vero e proprio.
Dinanzi a tutto ciò, deprime, non sorprende neppure più di tanto, la disattenzione internazionale e soprattutto europea; impegnati nell’immaginare di trasformare l’Europa in una fortezza inespugnabile, ossia il contrario di quanto abbiamo sempre cercato di essere, sembra che le sofferenze degli altri popoli ci lascino indifferenti, che è un altro frutto avvelenato di questa cultura muscolare e di potenza da cui siamo affascinati. Conforta invece che migliaia di israeliani continuino a protestare per difendere i pilastri istituzionali della democrazia israeliana e per richiedere la fine delle operazioni militari per riavviare le trattative sugli ostaggi. Perché sanno che il rischio per Israele è di guadagnare territori e perdere se stesso.

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