Ci sono momenti in cui le citazioni colte non servono, situazioni nelle quali si può e si deve trascurare il protocollo per far parlare il cuore. L’annuncio che il Papa lascia il Gemelli per tornare “a casa” è una di quelle circostanze. E allora lasciatecelo dire: siamo proprio contenti. Se fosse possibile lo ripeteremmo in tutte le lingue del mondo, e nei mille differenti dialetti che compongono il vocabolario del nostro Paese. Diciamo grazie anche se sappiamo che la convalescenza sarà lunga e non conosciamo quali strascichi, di fatica innanzitutto, la malattia lascerà sul fisico di un uomo anziano che segue ritmi di servizio che stroncherebbero un ragazzino. Però il Papa torna a casa, ed è ciò che conta. Perché in questi giorni ci è mancato, abbiamo avvertito forte l’assenza del suo volto sorridente mentre il mondo come un pendolo impazzito oscillava tra il desiderio della pace, per quanto ingiusta possa profilarsi, e l’aggressività di chi sembra voler monetizzare tutto, pretendendo di trattare l’universo intero come un grande magazzino dove ogni cosa è in vendita e comanda chi ha il portafogli più gonfio. La ricchezza, e quindi il ricatto del potere, come sola unità di misura.
È mancato papa Francesco come testimone degli ultimi, degli abusati, dei migranti, a cominciare dai poveracci oggetti passivi della minacciata «più grande deportazione di massa della storia». Si è sentita l’assenza delle sue frasi semplici, eppure capaci di abbracciare sofferenze enormi, ricordando che nessuno di noi è solo mai, compresi i momenti in cui il buio sembra una condanna definitiva e non esiste al mondo chi sia in grado di capirti e di disegnare per te un’ipotesi, fosse anche uno scarabocchio, di futuro. Oggi, ne siamo certi, sono loro, gli ultimi, i dimenticati, a dire per primi grazie. Saperlo fuori dal pericolo di vita è un’àncora di speranza per chi è a rischio di perderla. Lo diciamo nella consapevolezza che anche il Papa è semplicemente un uomo e che a guidare la Chiesa è una forza d’amore immensamente più grande di quanto la nostra povera natura possa garantire e regalare. Però il Pontefice rappresenta il volto umano di quella forza, in cui vengono raccolte tutte le miserie, e insieme ogni gioia, di cui si compone la nostra esistenza. In questo senso i giorni d’ospedale sono stati importanti, fondamentali.
Con il suo ricovero al Gemelli, Francesco ha testimoniato come la malattia possa diventare un momento di crescita, una scuola per imparare a capire meglio cosa conta davvero. Niente, infatti, più della consapevolezza della propria fragilità ha il potere di farci comprendere la differenza tra ciò che passa e quello che resta. E poi la malattia annulla le distanze, abbatte le barriere dell’età e del prestigio sociale, ti porta a essere veramente quello che sei. Lo dimostrano i mille messaggi arrivati al Gemelli nei giorni di degenza del Papa, lo testimoniano se possibile anche meglio i disegni regalati a Francesco dai bambini, con i loro auguri, ingenui e teneri, e per questo ancora più veri, più significativi, più forti. Siamo certi che quei segni d’affetto sono stati fondamentali per la reazione contro la malattia, vissuta come una prova dura ma sempre nel segno del servizio. Perché - sono parole scritte dal Papa durante il ricovero - anche nella debolezza «niente può impedirci di amare, di pregare, di donare noi stessi, di essere l’uno per l’altro, nella fede, segni luminosi di speranza». Il Papa, alla scuola del Vangelo, ci chiede di non dimenticarlo mai e di ricordare sempre che nessuno è inutile e che non esiste vita che non meriti di essere vissuta. Per capirlo basta accendere il cuore con la preghiera, la scala che avvicina la terra il cielo, la scuola per cercare di imparare a ragionare come Dio, l’alfabeto del cuore, che non ha bisogno mai di frasi forbite e immagini colte. E che oggi racchiude tutti i suoi sentimenti in un’unica parola: grazie. Sì, lo ripetiamo: siamo proprio contenti.