
Nelle domeniche dell’Anno Santo “Avvenire” ospita voci credenti e laiche con riflessioni a partire da domande ispirate dalla Bolla di indizione del Giubileo: qual è oggi la speranza che “non delude”? Quali speranze nutrono il nostro sguardo sul futuro? Su quali basi edifichiamo i progetti della vita? E la società, a che speranza attinge? Tutti gli articoli già usciti, dall’inizio del Giubileo, su Avvenire.it/Opinioni.
Qualche tempo fa, con un gruppo di studenti in visita a una chiesa storica, mi sono imbattuto in una statua medievale, allegoria della Speranza. Mi ha colpito il suo sguardo, rivolto in alto, verso un altrove di possibilità. Se da un lato quello sguardo mi ha rasserenato, dall’altro mi ha posto di fronte a un interrogativo radicale, e quindi anche un po’ inquietante: dov’è la speranza? Ma non in generale: dov’è la mia speranza? Senza speranza non potremmo alzarci dal letto la mattina, fare progetti, amare, metterci in gioco, costruire. Se il nostro sguardo non fruga tra le pieghe del futuro, se non si alza verso un altrove, ogni passo è impossibile. Tutto bellissimo: ma, a ben guardare, riflettere sulla speranza ci fa porre l’interrogativo radicale: perché sperare, se tutto poi deve finire? Cosa costruisco a fare, se la morte cancellerà tutto? Perché sperare nella vita, se l’epilogo è già scritto? Mi sono portato dentro a lungo questa domanda, e ancora me la porto dentro. Ma, essendosi risvegliato, questo interrogativo mi ha permesso di guardare al mio quotidiano con più profondità. E di notare tre volti, tre persone, che, almeno in parte, mi hanno risposto.
Il primo volto è quello di un ragazzino in una gara di Judo. Ero lì perché gareggiava anche mio figlio, in una palestra sovraffollata di genitori, con dieci combattimenti che si svolgevano contemporaneamente. Eppure, dall’angolo che mi ero ritagliato sugli spalti, fui colpito proprio da quell’incontro. Uno dei due contendenti era evidentemente più forte dell’altro: si muoveva meglio, si districava alla grande con le prese e con le mosse, era nettamente più veloce. Se la gara fosse terminata in quel momento, ai punti avrebbe sicuramente vinto lui. Ma lo sfavorito, all’improvviso, tentò una mossa inattesa. E gli riuscì: fece volare in aria l’avversario e lo fece cadere sul tatami. Una mossa perfetta, da manuale, che sancì la fine dell’incontro: il giudice diede la vittoria allo sfavorito. I due si allontanarono e si inchinarono per il saluto: un segno di rispetto che si fa all’inizio e alla fine di ogni gara. Il vincitore aveva già alle spalle, fuori dal tatami, il suo allenatore e i suoi compagni che esultavano: era la semifinale, si sarebbe giocato la vittoria finale. In un primo momento fu tentato di correre da loro. Poi però si accorse che il suo avversario stava piangendo. Non ci pensò un attimo: lasciò perdere allenatore e compagni, corse da lui e lo abbracciò.
L'abbraccio tra quei due, che fino a pochi istanti prima erano avvinghiati per sconfiggersi, per buttarsi a terra a vicenda, con quell’adrenalina a mille che spinge a voler battere l’avversario, mi commosse profondamente. Mi ricordò che gli avversari non devono mai diventare nemici. Pensai che quel gesto tra due ragazzini avrebbe potuto insegnare molto anche a noi adulti, persi nei nostri conflitti banali e inutili, e a molti grandi della terra. La speranza, in ogni ambito dell’esistenza, è proprio qui, nel sentire l’altro. La speranza si fonda sull’empatia che cura e crea legami potentissimi, fa rifiorire le relazioni, schiude energie di futuro. La speranza è uscire da sé stessi, capire che c’è qualcosa di più importante delle nostre vittorie: il giocare in squadra, il rispetto, lo sguardo attento su chi è vicino.
Il secondo volto è quello di uno studente delle superiori incontrato durante una conferenza con alcune classi, organizzata nel contesto di un festival letterario. Questo ragazzo non ascoltava nulla, anzi, ridacchiava e disturbava in continuazione, con un atteggiamento superficiale e disinteressato. Per evitare tensioni inutili e fuori luogo, glielo feci notare con un po’ di ironia. Decise di stare al gioco e si spostò in prima fila. Da lì ascoltò perfettamente non solo le mie parole ma anche la discussione che ne seguì con i suoi compagni. Discutevamo di giovani: di crisi, ma anche di futuro; di speranza, appunto. Io portavo il mio punto di vista di prof e di genitore, loro facevano domande e dicevano come la pensavano. A un certo punto, il ragazzo che avevo richiamato alzò la mano. Disse più o meno queste parole: «Tutti abbiamo una maschera che nasconde chi siamo, che ci impedisce di vivere in pienezza. Dobbiamo togliercela. Dobbiamo almeno provarci, anche se è difficile». Rimasi di stucco: parole di una profondità incredibile, che non mi aspettavo. La speranza fa proprio così: ti sorprende. La speranza che è quel ragazzo: una persona che si rende conto che la superficialità è una maschera, una corazza che ti evita di entrare profondamente in contatto con chi sei, perché guardarti dentro, ma sul serio, fa paura. Eppure la speranza parte proprio da qui: riuscire a scendere dentro di sé, abbracciando i propri limiti, ma scoprendo anche i propri talenti, il proprio infinito valore. È questo che costruisce futuro
L'ultimo volto che vorrei condividere è quello di Ermanno, il sindaco della mia città, tragicamente scomparso ancora molto giovane la scorsa estate per un male tremendo. La sua morte è stata uno choc per tutti e, ovviamente, anche per me. Non riesco più a smettere di pensare a lui e ogni volta il dolore atroce si somma all’angoscia, alla nitida consapevolezza che la vita è un soffio, un filo fragilissimo. Perché tutto ciò è accaduto? Che senso ha? Come si può spiegare tutto questo, anche alla luce della fede? Domande senza risposte plausibili. Eppure, quando penso a Ermanno, mi rendo contro che tra tutto il dolore si fa largo una luce. Una luce che viene dal suo modo di essere, sempre generoso, sempre al servizio, sempre in ascolto. Una luce che si concentra in un episodio, l’ultimo suo giorno in Comune, prima che la malattia lo facesse stare troppo male e se lo portasse via poche settimane dopo. C’era una classe della scuola primaria in visita. Ermanno ricevette bambini e insegnanti nella sala del Consiglio comunale. Mi volle con sé: ero il suo assessore all’istruzione. I bambini erano lì per discutere di futuro: avevano scritto lettere per un domani migliore. Ermanno li ascoltò, disponibile come sempre. Mi fa impressione pensare a come quell’uomo, già segnato dalla fine, sia stato capace di rimanere lì, saldo, con loro, a confrontarsi su un futuro che ormai quasi non gli apparteneva più. Alla fine Ermanno disse parole meravigliose: « Non possiamo essere perfetti e risolvere tutti i problemi, ma abbiamo un grande potere: lasciare, nel nostro piccolo, il mondo che ci è consegnato migliore di come lo abbiamo trovato, con le nostre azioni di ogni giorno, a partire dalle più semplici». Parole che echeggiavano quelle dell’ultimo messaggio di Baden Powell agli Scout: « Il vero modo di essere felici è quello di procurare la felicità agli altri. Cercate di lasciare questo mondo un po’ migliore di quanto l’avete trovato e, quando suonerà la vostra ora di morire, potrete morire felici, nella coscienza di non aver sprecato il vostro tempo, ma di avere fatto del vostro meglio».
Io non so se Ermanno in quel momento avesse in mente queste parole di Baden Powell. So però che lui, vivendo come ha vissuto fino all’ultimo, le ha incarnate sul serio. Conservo una foto di quel suo ultimo giorno in Comune: Ermanno sorridente con un cartellone dei bambini in mano. Ancora non mi spiego dove abbia trovato la forza di sorridere, ma forse il suo segreto stava proprio lì: nel dare tutto fino alla fine, per provare a rendere migliore il mondo fino all’ultimo instante. E il suo pezzo di mondo, in quel momento, erano i bambini. Cos’è la speranza? È quel sorriso di Ermanno malato. È donare tutto ciò che si ha, finché si può, per passare il miglior testimone possibile a chi verrà dopo di noi. Donare tutto per essere felici. Donare tutto alle persone che incontriamo. Perché la speranza di tutti – e anche la mia – in fin dei conti, è nelle persone.