lunedì 24 marzo 2025
Abbiamo visto la nuova serie di Netflix e ci siamo interrogati sul difficile rapporti tra figli e genitori
Un fermo immagine tratto dalla serie di Netflix “Adolescence”

Un fermo immagine tratto dalla serie di Netflix “Adolescence” - .

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«Posso chiederti una cosa? Io ti piaccio?». È la domanda che sgorga accorata dopo uno scambio verbale d’inaudita violenza tra il tredicenne Jamie Miller, accusato di aver ucciso a coltellate una sua coetanea, e la psicologa che lo sta incalzando, nella serie tv Netflix Adolescence, appena uscita e già la più vista sulla piattaforma. Quattro episodi girati tutti in tempo reale (un’ora circa di durata corrisponde esattamente a un’ora di vicenda narrata) e con inquadrature continue che seguono i personaggi in ogni loro movimento con l’effetto di immergere completamente lo spettatore nella storia, evitando di dare alcun giudizio su quanto accade.
Sono diversi e tutti cruciali i temi che la serie affronta, dal bullismo, alle dinamiche tossiche all’interno dei social media, all’incomunicabilità tra genitori e figli. Un oceano di dolore che lambisce le vite di tutti i personaggi, senza che sia possibile identificare con certezza un colpevole per il disastro cui si assiste. Certo, un assassino c’è, e una giovanissima vita interrotta per cui qualcuno dovrà pagare, ma non è tutto lì. Adolescence invita ad allargare lo sguardo su un mondo adulto che non sembra avere più gli strumenti per capire quanto sta accadendo nelle menti e nei cuori dei propri figli, troppo spesso soli, totalmente immersi nel mondo dei social, dove la derisione e la vergogna possono nascondersi anche dietro le parole e le emoji apparentemente più innocue.

Jamie Miller ha un’aria tranquilla, pare persino un po’ timido, ha un buon rapporto con suo padre e con la famiglia in generale. Quando la polizia irrompe di primo mattino in casa per trascinarlo in commissariato sembra quindi che si tratti di un errore. Ma lentamente emerge una verità sconcertante. Una storia di bullismo subito e di violenza incontrollabile, una rabbia folle e profonda acquattata nell’animo di chi sembra soltanto un mite ragazzino. L’origine di quella rabbia è difficile da identificare. Prova a farlo la psicologa protagonista dell’episodio 3 (il migliore della serie) che cerca d’instaurare un clima di empatia con Jamie, rinchiuso ormai da sette mesi in un Centro di Formazione Protetto, dove si ostina a professarsi innocente e del tutto estraneo alla vicenda (e soltanto nella puntata finale si saprà davvero come sono andate le cose). Provano a farlo i poliziotti, in visita alla scuola frequentata dal ragazzo, interrogando i suoi amici. Provano a farlo i genitori, chiedendosi dove hanno sbagliato, cosa non hanno capito di quel figlio amatissimo, chiuso in camera, al computer fino a tarda notte, che sembrava così “al sicuro”.

Tutti vedono – anche con l’aiuto di tecnologie sofisticate, come le telecamere di sorveglianza –, ma nessuno guarda. Nessuno coglie veramente quanto sta accadendo. Il mondo adulto è sempre più preoccupato di controllare i ragazzi, che sembrano «impossibili», come spiega alla polizia un insegnante, intento solo a chiamarsi fuori da qualsiasi responsabilità sulla vicenda. Pochi però parlano con loro, disposti ad ascoltarli sul serio, per comprenderli, anche nei loro aspetti più oscuri, sgradevoli e persino pericolosi. Lo fa l’ispettore Bascombe, il cui figlio è bullizzato e non vuole andare a scuola. E sarà proprio il ragazzo ad aprire gli occhi al padre su quanto sta accadendo in classe e sui veri rapporti tra Jamie e la vittima. Per il resto gli adulti sembrano spaventati dai ragazzi, come fossero animali feroci da domare e contenere in ogni modo. Eppure hanno solo tredici anni. «Ci si può spaventare davanti a un ragazzo di tredici anni?», urla Jamie alla psicologa.

Se davvero siamo di fronte a una fragilità giovanile sempre più diffusa, a una situazione di disagio profondo, che si palesa già a partire dalla preadolescenza, è ormai chiaro che chi dovrebbe farsene carico e porvi rimedio si mostra totalmente inadeguato. Le istituzioni – scuola, assistenza psicologica, spesso anche la famiglia – non hanno le competenze soprattutto affettive per governare tutto ciò. Così la violenza che deflagra improvvisamente in un Jamie che potrebbe essere figlio di ognuno di noi non trova alcuna barriera. È il risultato di emozioni non governate, non risolte, che in rete hanno trovato il loro sfogo, anche incanalandosi – come nella serie – verso gruppi di estremisti maschilisti, che predicano il più bieco disprezzo delle donne.

Quella violenza strisciante nei ragazzi rischia di non trovare nemmeno un adulto che se ne faccia carico, senza spaventarsi e senza ostinarsi a controllare “a distanza” il loro comportamento, magari geolocalizzandoli fin da quando entrano in possesso di uno smartphone. Nemmeno un adulto che li guardi davvero. Che poi è l’unica cosa che conta. Ed è la sola espressione che però non esce dalla bocca dell’algida psicologa in risposta all’angosciosa domanda di Jamie: “Sì mi piaci. Tu vali, nonostante tutto”.

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