La Nazionale, soprattutto questa Nazionale, è un ponte fatto con il cemento dei sogni. Una pietruzza lanciata sulla cresta del mare, di quelle che saltano una, due, tre volte in un colpo solo, e sempre avanti. Un grido che rompe il vetro della solitudine. Una cartina geografica muta con i confini disegnati a matita e tu hai la gomma per cancellare e modificarli. Forse senza volerlo, me lo ha spiegato il post di un amico. Interista convinto e militante, sui social si è lasciato andare: «Ebbro di vittoria dichiaro oggi, e mai più lo ripeterò, che Bonucci e Chiellini sono vergognosamente forti. Anzi, fortissimi». I due non sono giocatori qualsiasi, ma il 'muro' della Juventus, la difesa bianconera prestata all’azzurro e che d’improvviso, questa volta almeno, sono diventati ricchezza comune.
Alzi la mano chi l’altra sera si domandava in quale squadra giocasse Chiesa, e Berardi, e Jorginho, e Verratti. La maglia, domenica – ma è stato così per un mese – era la stessa per tutti. Gigante come quella esposta prima degli inni, eppure tagliata su misura per ogni calciatore e in fondo per ciascuno di noi. Perché il calcio è un gioco di desideri, puoi sentirtene parte anche se non hai mai tirato in porta una volta, e in tribuna, come sul divano, sono tutti uguali: il manager e l’operaio, lo studente e il professore. Mancini, il ct ha avuto il merito – o è stata una magia? – di ricordarcelo senza mai dirlo. Ha preso un po’ di argilla, forse neanche delle migliori, e ha costruito un gruppo, qualcuno dice una famiglia, di sicuro una squadra. Ed è un’immagine bellissima che richiama il gusto di lavorare, di ridere e anche di piangere, purché insieme. In più, di suo, l’allenatore ha insegnato allo spogliatoio il vocabolario dell’amicizia, quella costruita negli anni con i collaboratori stretti, quasi tutti ex compagni nella Sampdoria dei record, da 'Popeye' Lombardo a Salsano fino al 'gemello' Vialli.
Ma anche qui senza frasi fatte, con la forza dell’esempio, come si deve nella logica dell’affetto che non di parole ha bisogno, ma di gesti e chiede testimoni anziché maestri. L’esito l’abbiamo visto sul campo, una formazione che sembrava una comitiva di scalatori in cordata, e se qualcuno scivola c’è subito un altro pronto a tirarlo su. Con la vetta che a poco poco si avvicina, ma fai fatica a immaginarla se non quando ci sei sopra, e allora com’è bello il panorama da lassù. Sul prato verde prima, e nelle piazze poi, domenica sera all’inizio l’Italia era un po’ così, timida e forse persino vergognosa nel guardare gli altri dall’alto. E forse proprio per questo più desiderosa di fare festa, come quando ti svegli e ti accorgi che quello che stavi vivendo a occhi chiusi non era un sogno. Ma cronaca, realtà, per certi versi storia. Gli almanacchi raccontano che l’Italia torna sul tetto d’Europa 53 anni dopo, ma non dicono che il vero prodigio è stato ritrovare il senso di appartenenza, scoprire che non c’è più Milan, Napoli, Juventus, Fiorentina, non c’è più Nord e Sud, ma una comunità che prova a ripartire.
E se il pallone è un 'ponte' fragile per colmare le distanze costruite in primis dall’economia e dalla politica, quello stesso ponte può essere puntellato e allungato, come si fa con i libri dove per il momento si è scritta solo l’introduzione. Non necessariamente un romanzo, meglio un racconto di vita, con dentro tante storie in apparenza comuni, lacrime, risate e un pizzico di buona sorte. Perché sarebbe bastato che il 26 giugno Arnautovic, il centravanti austriaco fosse pochi centimetri più indietro e il suo gol sarebbe stato regolare e l’Italia fuori. Fuori dagli Europei, dal podio, dalla gloria e da tanti cuori. E invece domenica abbiamo sorriso nel vedere Spinazzola con le stampelle andare per primo a ricevere la medaglia d’oro, ci siamo commossi per l’abbraccio tra Mancini e Vialli, abbiamo ammirato la gioia composta del presidente Mattarella.
Qualcuno ha detto e scritto che l’Italia, dopo quello che ha passato, si meritava di vincere. Ma anche gli altri, pur se con numeri diversi, hanno vissuto lo stesso dolore, lo stesso senso di impotenza, la stessa fragilità. Forse semplicemente più degli altri, questo sì, noi abbiamo imparato il senso del resistere e la lezione della sconfitta di fronte a un avversario troppo forte. Come il tennista Berrettini che poche ore dopo aver perso con il 'mostro' imbattibile Djokovic, era a Wembley a tifare per l’Italia. In lui c’era tanto di noi, orgogliosi di essere andati persino oltre i nostri limiti, pronti anche a perdere ma non senza lottare, con il groppo in gola desideroso solo di diventare grido di festa. E così è stato. Domenica sera l’Italia ha urlato la sua voglia di stare insieme, al di là delle distanze geografiche e di tifo. Ha lanciato un sassolino nel mare e la pietruzza ha fatto uno, due, dieci balzi oltre il pantano di oggi e l’incertezza per il domani. Soprattutto ha scritto una storia vera, ma usando l’inchiostro dei sogni, così che sembrasse una fiaba. Secondo una teologa tedesca la felicità è un bambino che corre dietro a un pallone. A Londra l’altro ieri quel bambino aveva la maglia azzurra.