Una domenica di shopping a Milano - Fotogramma
«Anacronistica». Delle diverse reazioni che ha suscitato la proposta di legge sulla chiusura dei negozi in 6 superfestività, presentata da Silvio Giovine di Fratelli d’Italia, colpisce questa definizione. Perché insiste sul tema fondamentale del tempo e assieme tradisce una precisa weltanschauung, una visione dell’uomo potremmo dire a una sola dimensione: quella del consumo.
La questione è semplice: dopo anni di liberalizzazione totale del commercio i piccoli negozi di quartiere sono stati spazzati via, in parte per una naturale modernizzazione della distribuzione e in parte perché impossibilitati ad assicurare gli stessi orari di lavoro dei supermercati. Una concorrenza del “sempre aperto” che la stessa grande distribuzione organizzata subisce ora dall’online, per definizione sempre accesa e accessibile. Di qui il forte timore di alcuni operatori del settore che qualsiasi regolamentazione possa intaccare il fatturato. Anche solo di qualche frazione, visto che stiamo parlando di sei-giornate-sei in un anno - Natale, Santo Stefano, Capodanno, Pasqua, Ferragosto, il Primo Maggio - e una tipologia molto limitata di esercizi commerciali (sono esclusi bar, ristoranti, pasticcerie…). Giornate festive nelle quali sono invece chiamati a lavorare gli addetti del settore, un tempo in grande espansione numerica, ora molto meno vista la sempre più spinta automazione che caratterizza anche la Gdo. Con una progressiva “proletarizzazione” del commercio tra addetti alla logistica sfruttati tramite false cooperative, consegne a mezzo rider non tutelati e commesse a basso salario.
Perché il sistema economico si regge sulla continua e rutilante catena di produzione-vendita-consumo, sull’estrazione di valore dalle persone prima ancora che dalla trasformazione delle cose. E affinché ciò avvenga, perché il plusvalore possa generarsi in maniera continuativa – andando in minima parte a remunerare il lavoro e per la maggior parte a valorizzare il capitale e concentrarsi nelle mani di pochi – si deve “conquistare” il tempo delle persone, poterlo in qualche modo indirizzare e concentrare appunto verso il binomio produzione/consumo. La festa, le domeniche in genere ma soprattutto le grandi festività religiose o laiche, hanno invece questa funzione in particolare: quella di sancire uno stop, una cesura rispetto al tempo ordinario del lavoro. Le feste servono a ri-sincronizzare le persone in un tempo che viene liberato per ognuno di noi contemporaneamente. Possiamo fare festa assieme perché siamo tutti liberi e siamo tutti liberi proprio perché possiamo fare festa assieme (è il senso della liberazione nell’Esodo, dello shabbat e della domenica). Liberi di stare in famiglia, liberi di incontrarsi con la propria comunità, liberi di impegnarsi nel volontariato, di costruire bene comune, di pensare, liberi veramente in un tempo sincrono.
Il sistema economico, invece, persegue l’obiettivo di ricondurre tutto e solo alla generazione di profitto, compresi i rapporti sociali. Basti pensare ai centri commerciali, quei non-luoghi che sono diventati le sedi privilegiate di una socialità che non è mai gratuita ma sempre dominata dallo scambio economico. E per farlo propone un modello di distrazione di massa disimpegnato, finalizzato esclusivamente al consumo, basato sull’a-sincronia: alcuni devono sempre lavorare perché altri a turno acquistino, e viceversa, lungo tutti i 365 giorni dell’anno, a ciclo continuo senza fermate. Senza mai interrompere l’offerta di beni spacciata come indispensabile. Come se la vera e unica urgenza per le persone fosse acquistare anche il giorno di Pasqua, anche il Primo Maggio, l’ennesima camicia, il nuovo telefonino o le uova che ci si è dimenticati di comprare il giorno prima.
Ma non è forse proprio questa idea della persona “a una sola dimensione” e della libertà stessa ad essere, in maniera interessata, fortemente “anacronistica”?