Prima «noi», poi «loro». Non è mica colpa «nostra», è colpa «loro». «Noi» non siamo razzisti. Anzi, «noi» siamo fin troppo buoni e «loro» se ne approfittano. E adesso? Adesso è venuto giù un pezzo d’Italia, la falce implacabile del terremoto ha mietuto le sue vittime senza chiedere il passaporto o il permesso di soggiorno. Adesso gli sfollati siamo noi. Tutti noi, cioè con «noi» anche «loro». E conta poco, anzi niente, che perfino in queste ore di lutto ci sia chi gioca a «noi» e «loro»: mettiamoci «loro» nelle tende», «noi» andiamo nelle strutture dove sono ospitati; prendiamo per «noi» i fondi stanziati per «loro»… Ma siamo uguali, ugualmente fragili. Lo saremmo sotto le bombe e i colpi di mortaio che martirizzano Aleppo, lo siamo sotto le macerie di Amatrice, Accumoli, Arquata. Esseri umani. Carne, sangue, anime. Non c’è differenza tra il Medio Oriente e il Lazio o le Marche, quando si muore innocenti. Quando a 8 mesi o a 10 anni si saluta la vita senza ancora averla assaggiata. Quando paghi il prezzo di un figlio o di un genitore alla vacanza "del cuore" nel paesino della nonna, dove vai pochi giorni all’anno. Il paese che in estate vede triplicare la sua popolazione. Se il terremoto avesse bussato a ottobre avrebbe inghiottito meno vite, pensi. E capisci che non servono i carri armati. Basta uno scrollone di 142 infiniti secondi.Non deve essere poi tanto diverso lo stato d’animo di chi sopravvive ma resta senza casa. Il terremoto, come la guerra, può trasformarti in un richiedente asilo. Cambia poco se la tenda è montata nel campo sportivo dove fino a ieri giocavi a pallone con gli amici. L’angoscia e la paura non si misurano in metri e nemmeno in miglia marine.Una delle foto simbolo di questo sisma è quella di un ragazzo salvato, strappato alle macerie e coperto con il Tricolore. I suoi tratti sono esotici, dicono che sia peruviano. «Il ragazzo sentiva freddo, era sotto choc. Gli ho dato un bacio sulla guancia e gli ho detto: "Dai è finita". Piangeva. "C’è mia mamma sotto", diceva. Ho trovato delle bandiere italiane in una piazza e le ho messe sul petto al ragazzo, per coprirlo», ha raccontato uno dei soccorritori.Chissà, forse le bandiere erano ancora appese a qualche balcone per via dei recenti campionati europei di calcio. Si dice che a noi italiani il Tricolore piaccia soprattutto allo stadio, poi quando è il momento di onorarlo ci tiriamo indietro. Non è del tutto vero, per fortuna. Lo sapevamo già ma lo dimostra una volta di più proprio quel soccorritore, che la bandiera nazionale l’ha onorata eccome. Dando salvezza e riparo a uno straniero, un essere umano, un fratello. Lo dimostrano quei soccorritori, tutti.Volontari o in uniforme, che da due giorni e due notti non si fermano, scavano, sorreggono, nutrono, confortano, semplicemente ascoltano. Perché essere italiani significa, innanzi tutto, amare l’Italia. Se sei nato qui e sghignazzi al telefono nella notte buia di un altro terremoto, fregandoti le mani al pensiero dei lauti guadagni che potrai fare con la ricostruzione, sei davvero italiano? Se, Dio non voglia, avessi risparmiato in materiali e in tecniche di sicurezza per ristrutturare qualche edificio pubblico che mercoledì non ha resistito all’urto della terra, sei italiano? Per l’anagrafe, solo per l’anagrafe. Per l’anagrafe non lo sono, invece, i venti richiedenti asilo provenienti dal Nord Africa che sono partiti da Monteprandone (Ascoli Piceno) per dare il loro contributo nei paesi delle Marche colpiti dal sisma. Non lo sono gli ospiti dello Sprar di Roccella Ionica, che hanno deciso di devolvere il loro
pocket money (sì, i 2 euro e mezzo al giorno che tanto indignano i demagoghi di casa nostra) ai terremotati. E non sono italiani nemmeno i migranti alloggiati a Taranto, che si sono messi a disposizione per portare soccorsi nel cuore lacerato della nostra patria. «Nostra» e un po’ anche «loro», perché in questo modo dimostrano di amarla. O, come minimo, di essere umani. Che di questi tempi è tantissimo. Perché l’umanità le bandiere non le brandisce, le usa per salvare.