Valore della norma (e di una battaglia): il senso della dignità
giovedì 9 maggio 2019

Natura e artificio, verità e finzione. Quante volte la vita fabbricata in provetta ci ha messo di fronte a spinosi grovigli, umani e giuridici; specie nelle varianti di progetto più azzardate, come la maternità surrogata. Sappiamo che c’è una giustizia delle regole, che rifiuta le aberrazioni, e va messa in salvo. E se fallisce resta un desolato bisogno di rimedio residuo alle trasgressioni avvenute, quasi una specie di “giustizia del giorno dopo” china sui cocci. Quanti pensieri dunque riemergono ora, di fonte alla sentenza della Cassazione italiana a Sezioni Unite, che dice “no” alla trascrizione nei registri dello stato civile italiano dei “figli” ottenuti da maternità surrogata all’estero, in uno Stato che ammette quella pratica che da noi è penalmente vietata. Quel divieto è principio di civiltà, perché ha una «funzione essenziale di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti».

Finalmente. Quanti balbettii, quante diatribe ossessive, quanti paralogismi nei provvedimenti finora registrati nei vari tribunali, nella discorde dimostrazione del teorema di conformità o contrarietà all’ordine pubblico. Ora sia chiaro per tutti: non solo l’atto di nascita estero, ma neppure la sentenza di un giudice straniero, là dove l’utero in affitto viene praticato, può scavalcare la norma che da noi (e nella stragrande maggioranza dei Paesi del mondo) rappresenta – sono le parole della Corte «un principio di ordine pubblico posto a tutela della dignità della gestante e dell’istituto dell’adozione».

Dignità è parola grande e positiva, che fa schermo per antitesi al disvalore indegno della surrogazione, già definita dalla Corte costituzionale n. 272 del 2017 «una pratica che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane». È appena il caso di rammentare che nella coscienza collettiva l’aspetto di sfruttamento e di deprivazione che lo contrassegna produce dolore e riprovazione pressoché generalizzata, con proposte di mettere al bando nel mondo questa forma che studiosi e commentatori definiscono «schiavitù». Oggi la lettura delle norme fatta dalla nostra Corte Suprema rafforza e presidia questa frontiera.

Nell’ultima parte la sentenza esplora, un po’ succintamente, il problema della sorte del “figlio” che non è figlio e si chiede se il suo interesse non sia sacrificato dall’esclusione di quel pur falso rapporto genitoriale che la maternità surrogata ha procurato. E quasi a dar spiraglio a una “giustizia del giorno dopo”, dice che un possibile rimedio non è escluso, ad esempio mediante il pertugio della «adozione in casi particolari» a favore del genitore “intenzionale”. In queste riflessioni c’è una parte positiva e una parte ambigua.

La parte positiva è l’attenzione perdurante all’interesse del bambino, anche quando l’acqua è sporca. Ma allora questo interesse bisogna risvegliarlo prima, e intendere dapprincipio che la «dignità violata » si riferisce, certo, alla donna ridotta – per contratto – a “fattrice”, ma anche al bambino. Perché troppi dimenticano di guardare sin dall’inizio pure alla dignità del bambino, ridotto a sua volta a strumento del “desiderio” dei committenti, che viene al mondo e perde all’istante la relazione fondamentale della sua vita, quella con la madre che l’ha portato in grembo, e la sua nascita è un abbandono, cioè un morire? Il rimedio migliore non pare quello di suggerire adozioni speciali e spicce, o sananti come si usa nella patria dei condoni e degli sconti.

Il rimedio è dare serietà dissuasiva e non aggirabile alla norma, così esaltata dalla Consulta e oggi ancora dalla Cassazione in modo definitivo. Sì, dare serietà dissuasiva, una buona volta, anche se la norma è violata e fa vittime fuori confine: giusto per non fare più vittime, mai più.

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