Esce nelle sale il kolossal
Lo Hobbit, nella prima tappa di una trilogia tratta dall’omonimo grande racconto di J.R.R. Tolkien che è l’antefatto del
Signore degli anelli. Se già la trasposizione cinematografica di quest’ultimo ha mietuto un enorme e planetario successo di pubblico (è il sesto incasso di tutti i tempi), è alquanto probabile che anche questa nuova saga, che ha creato molta attesa, conseguirà risultati non molto dissimili. In attesa di vedere il film, che ci auguriamo fedele al libro tolkeniano, qui indugiamo brevemente sull’attualità etica di quest’ultimo, che contiene (come minimo) due grandi temi morali sempre validi. Il primo è quello delle virtù umane. Come il don Abbondio manzoniano, molti dicono che «uno il coraggio non se lo può dare», e lo stesso molti pensano della fortezza, dello spirito di sacrificio e di tante altre virtù. Pensiamo inoltre che solo i predestinati possano proporsi elevati ideali morali, e ci accontentiamo del minimo.
Lo Hobbit, per contro, smonta l’indolenza di chi vuol rimanere nel quieto vivere, di chi non vuol prendere iniziative, di chi è inerte di fronte alle molte ingiustizie che avvengono nel mondo, di chi accampa la scusa: «Sono fatto così per carattere». Infatti Bilbo, il protagonista, è un hobbit (chiamato anche "mezzuomo", alto poco più di un metro) amante della tranquillità, tutt’altro che un eroe predestinato, che però progressivamente coltiva se stesso, si autoforgia acquisendo virtù come quelle sopra menzionate, nonché le virtù dell’amicizia e della saggezza. Diventa capace di grandi imprese, si batte con orchi, lupi, vari altri esseri malvagi e infine con un drago, acquisendo progressivamente una profonda saggezza, con cui evita una guerra sanguinosa. E tutte le grandi imprese compiute materialmente da Bilbo sono meno grandi di quella da lui compiuta su se stesso, sul proprio carattere. C’è una pagina in cui questo hobbit deve scegliere se avvicinarsi alla tana del drago, in cui Tolkien scrive: «Andare oltre fu la cosa più coraggiosa che avesse mai fatto. Le cose tremende che accaddero in seguito furono niente al confronto: egli combatté la vera battaglia da solo», cioè in se stesso. Il secondo grande tema etico è quello del male umano e, di nuovo, delle virtù rispetto all’invisibilità. È un tema che si trova – per esempio – in Erodoto, che riferisce di un elmo che dà l’invisibilità; in Platone, che narra di un mitologico anello che rende invisibili, simile a quello che Tolkien fa trovare a Bilbo; in Bentham, che progetta un carcere che renda inavvertibile il controllo; in Freud e tanti altri. Per un apologo di Freud e per molte persone, l’uomo rispetta le leggi ed evita di commettere il male solo se si sente sotto controllo o per timore delle sanzioni, ma nessuno rispetterebbe le leggi quando gli è vantaggioso trasgredirle se, grazie all’invisibilità, riuscisse a evitare d’essere scoperto. Invece, per Platone e per Tolkien, l’uomo, anche se fosse invisibile, è in grado (anche se solo alcuni lo farebbero) di astenersi dal male proprio per il fatto che è male, cioè per evitare la malvagità del male, anche quando fosse vantaggioso compierlo. Nello
Hobbit, come poi ricapiterà nel
Signore degli Anelli c’è un episodio emblematico in tal senso. Bilbo sta cercando di sfuggire a una creatura spregevole, Gollum, che vuole ucciderlo e, grazie all’invisibilità datagli dall’anello, potrebbe colpirlo a morte: «Voleva ucciderlo – scrive Tolkien. – Ma non era un combattimento leale. Egli era invisibile adesso. Gollum non aveva una spada […] era infelice, solo e perduto». Così, nel cuore di Bilbo sgorgò un senso di pietà, finché, «ricaricato di nuova forza e risolutezza», oltrepassò il nemico senza ucciderlo. Quante lezioni, e grandi, da un piccolo hobbit...