Ansa
Il 1° Giugno 1988, con una lettera indirizzata all’allora Direttore della Specola Vaticana padre George Coyne S.J., il santo padre Giovanni Paolo II poneva una pietra miliare nel secolare dibattito sulle relazioni tra Scienza e Fede, anticipando di 10 anni l’Enciclica Fides et Ratio. Il documento non solo sanciva in maniera definitiva e inappellabile l’impossibilità, su base razionale, di un reale contrasto tra Scienza e Fede cristiana, ma indicava come assolutamente necessaria una effettiva collaborazione tra Teologia e Scienza. «La scienza può purificare la religione dall’errore e dalla superstizione; la religione può purificare la scienza dall’idolatria e dai falsi assoluti» – scriveva il Santo Pontefice – auspicando che Teologia e Scienza non si accontentassero di un rispettoso dialogo a distanza, ma la prima analizzasse con coraggio e determinazione quali risultati scientifici impongano di rivedere ed eventualmente riformulare i dogmi del passato e la seconda traesse ispirazione dalla religione per interrogarsi sui limiti intrinseci del metodo scientifico, evitando così di trasformarsi inconsciamente in idolatria.
L’eredità della lettera «Fides et Ratio» di Giovanni Paolo II
Dopo un trentennio, quanto del profetico invito è stato realizzato? Purtroppo ben poco o nulla. Si sono tenuti innumerevoli incontri, seminari, tavole rotonde e conferenze (l’ultima in ordine di tempo quella organizzata dalla Diocesi di Trieste il settembre scorso: «Teologia e Scienza in dialogo al tempo della pandemia»), ma tutte queste pur lodevoli iniziative si sono limitate a riaffermare il primo concetto della lettera di san Giovanni Paolo II, ovvero che Scienza e Teologia non sono in conflitto e possono dialogare. Dialogo che però è avvenuto rimanendo confinati nei rispettivi ambiti, evitando quindi di affrontare il ben più impegnativo invito ad individuare gli attuali errori e superstizioni della religione che la Scienza potrebbe sanare, come pure – da parte degli scienziati – riflettere con onestà intellettuale sull’ambito di applicabilità dell’epistemologia scientifica.
È ormai tempo che si analizzino con coraggio i motivi di un tale evidente fallimento. Innanzitutto dovremmo chiederci quale sia la superstizione cui fa riferimento la lettera citata: non è certo il gatto nero che ci attraversa la strada o l’oroscopo dei quotidiani e dei programmi televisivi, che ben poco hanno a che fare con la religione. È più probabile che il Papa allora si riferisse a quegli aspetti della Tradizione e ai Dogmi da essa conseguenti che, nella forma tramandataci, si sono gradualmente e subdolamente trasformati in formule vuote. Le ripetiamo magari a memoria, ma se ci interroghiamo sul loro significato profondo, ci accorgiamo che la loro formulazione è diventata incompatibile con l’attuale comprensione del mondo in cui viviamo. Risuonano qui le parole rivolte qualche settimana fa da papa Francesco ai catechisti: «... l’evangelizzazione non è mera ripetizione, mai, del passato... La grande tradizione cristiana del continente non deve diventare un reperto storico, altrimenti non è più tradizione!» e proseguiva invitando tutti a essere creativi nel linguaggio, evitando le «risposte preconfezionate che abbiamo nella valigetta».
Se questa è la superstizione (dal latino superstare: stare sopra, opprimere, impedire di pensare razionalmente) da cui la religione deve essere purificata, dobbiamo chiederci quale sia la Scienza che può aiutarci in questo compito. Non è certo la fisica dei buchi neri o la teoria dei quanti e nemmeno il famoso bosone di Higgs. Anche in questo caso la lettera di san Giovanni Paolo II è illuminante: «Come le antiche cosmologie del vicino Oriente poterono essere purificate e assimilate nei primi capitoli del Genesi, non potrebbe la cosmologia contemporanea avere qualcosa da offrire alle nostre riflessioni sulla creazione? Può una prospettiva evoluzionistica contribuire a far luce sulla teologia antropologica, sul significato della persona umana come “imago Dei”, sul problema della cristologia - e anche sullo sviluppo della dottrina stessa? Quali sono, se ve ne sono, le implicazioni escatologiche della cosmologia contemporanea, specialmente alla luce dell’immenso futuro del nostro universo?».
Nella fede ci sono aspetti della tradizione e dei dogmi da essa conseguenti che, nella forma tramandataci, si sono gradualmente e subdolamente trasformati in formule vuote che magari ripetiamo a memoria
È quindi la scienza della totalità della realtà fisica, la nuova cosmologia, che, come nel passato, può aiutare la teologia a riformulare le grandi intuizioni dei padri, suggerendo un linguaggio coerente con l’attuale visione del mondo. In quest’opera di purificazione non è necessaria una conoscenza approfondita e dettagliata della cosmologia scientifica: è sufficiente coglierne le novità essenziali rispetto a quella cosmologia aristotelica sulla quale si è basata storicamente la teologia classica. Tra gli aspetti rivoluzionari del modello cosmologico attuale va menzionato il nuovo concetto di spazio, che non può più essere pensato come un contenitore passivo di materia ed energia, ma è un tutt’uno con queste e da esse è modificato e plasmato: non esiste quindi lo spazio vuoto e non è più pensabile uno spazio che esista al di fuori della realtà fisica. Ma la novità più rilevante, sia dal punto scientifico che filosofico e teologico, è il fatto che l’universo è essenzialmente evolutivo, ha una storia che si dipana attraversando fasi diversissime, tutte collegate tra loro e interdipendenti, che via via fanno emergere nuove realtà sempre più complesse e imprevedibili. È una storia olistica, onnicomprensiva, che include quindi anche l’emergere della vita biologica e della coscienza, almeno nello sperduto pianeta che abitiamo. In questa nuova visione della realtà cosmica, l’antica netta separazione tra materia inanimata e materia vivente perde di significato e va sostituita con un graduale cammino verso la coscienza. Un cammino non concluso che ci interroga sul concetto di creazione, sul nostro futuro e su quello dell’umanità intera, con presupposti ben diversi da quelli del passato. In questo contesto va inserita anche la novità assoluta della rivelazione cristiana, anch’essa quindi in divenire unitamente a tutto il creato.
Non c’è dubbio che il compito che attende i giovani teologi è formidabile, ma il Papa nella sua lettera indica chiaramente la strada maestra per iniziare il cambiamento: introdurre l’insegnamento della cosmologia tra i corsi di studio delle Facoltà Teologiche, soprattutto quelle Pontificie. Purtroppo (e spero di essere smentito) dopo più di trent’anni nulla di quanto proposto è stato fatto. Qualche speranza l’aveva destata il proemio della Costituzione apostolica Veritatis Gaudium di papa Francesco che sprona gli studi teologici alla multidisciplinarità, ma la seconda parte del documento, sicuramente redatta da altre mani, chiudeva ogni porta al rinnovamento, arroccandosi dietro l’autorità del Magistero. Anche in questo caso, la parola “cosmologia” non appare in nessuna parte del documento, a dimostrazione che il suggerimento di san Giovanni Paolo II continua ad essere ignorato.
È un vero peccato, perché una generazione di giovani teologi competenti in cosmologia potrebbe portare a compimento anche la seconda purificazione auspicata dal Papa nella sua lettera: «La religione può purificare la scienza dall’idolatria e dai falsi assoluti». La cosmologia, intesa come ragionamento su tutta la realtà del cosmo, rappresenta anche per la scienza motivo di riflessione sui limiti del proprio ambito epistemologico. Infatti, il metodo scientifico inaugurato da Galilei e tutt’ora impiegato dagli scienziati, non può essere applicato per investigare il fenomeno dell’evoluzione dell’intero universo per il semplice motivo che si tratta di un “esperimento” unico e irripetibile, ma anche perché non è possibile definire le condizioni iniziali dell’evoluzione cosmica, neppure in linea teorica. Infine, in una realtà fisica che evolve, la pretesa che esistano leggi di natura universali, valide in tutte le fasi attraverso le quali essa è passata, non è razionalmente giustificabile.
Per tutti questi motivi, molto spesso ignorati dai fisici e dai cosmologi, la scienza è legittimata ad investigare fasi distinte dell’evoluzione cosmica – e riesce nell’intento molto bene – ma se vuole dare un senso olistico al cosmo evolvente, deve affidare i suoi risultati parziali ad altre forme di conoscenza, quali la filosofia e la teologia. Una tale fattiva collaborazione epistemologica interdisciplinare, auspicata da san Giovanni Paolo II nella sua lettera e da papa Francesco nel proemio della Veritatis Gaudium, sarebbe sommamente utile per valutare e guidare le nuove ed inattese vie dell’evoluzione antropologica, dalla rete che sempre più si avvicina ad una connessione neuronale totalizzante, all’avanzata incontrollabile dell’intelligenza artificiale.