L’Avvento – ogni avvento, e ogni vera attesa di
salvezza – è una esperienza fondamentale soprattutto nei tempi di
crisi. Non si esce da nessuna crisi se non ci si esercita nell’arte
dell’attesa di una salvezza, arte gioiosa e dolorosa assieme. Una
salvezza che occorre prima volere per poi desiderarla. La nostra è
crisi epocale perché manca il desiderio di salvezza, e manca perché
non abbiamo, collettivamente, occhi capaci di vederla o, quantomeno,
di intravvederla.Per chiedere 'quanto manca al giorno?', è necessario
il desiderio dell’alba, e saperne riconoscere i segni. In questi
anni si annunciano troppe 'albe', perché ognuno vede i segni della
propria alba laddove per altri è solo notte fonda. Qualcuno la
individua nella ripresa del Pil, e spera di vederne i primi
segnali nella ripresa dei consumi (la malattia che diventa
cura), altri in una ecumenica, ma piuttosto vaga, 'economia
sociale di mercato', altri ancora nella eliminazione dei partiti per
affidare anche la cosa pubblica a imprese for-profit, realtà
finalmente efficienti e responsabili. Tutte queste 'albe' non sono però
abbastanza forti e cariche simbolicamente per muovere le passioni
umane alte, e quindi per aggregare attorno a esse grandi azioni
collettive e popolari. E così più scorre il tempo, più lontana
appare - ed è - la fine della notte. Una economia dell’attesa oggi
dovrebbe contenere alcune parole fondamentali. Insieme a 'lavoro' e
'giovani', su cui non si scrive e soffre mai abbastanza, ci sono almeno
tre parole che se mancano dal vocabolario e dalla grammatica civile,
rendono illusione ogni attesa.La prima di queste parole è virtù, in
particolare virtù civile. C’è invece tutta un’antica e persino
gloriosa tradizione che ha teorizzato che dalle crisi si esce con i
vizi, non con le virtù. Ma l’attesa è una virtù poiché va coltivata,
accudita, mantenuta soprattutto quando i tempi sono duri. Bernard de
Mandeville, trecento anni fa, ci ha raccontato 'La favola delle
api', dove la conversione dell’alveare vizioso (ma opulento) in
virtuoso aveva prodotto miseria per tutti. La tesi è chiara: solo i vizi
creano sviluppo, perché se la gente non ama lusso, comodità,
edonismo, giochi, l’economia si blocca per mancanza di domanda. E questo varrebbe anche e soprattutto in un Paese come il nostro la cui economia dipende molto, forse troppo, dal consumo di questi beni. È un’idea che purtroppo si ritrova ben radicata in buona parte della classe dirigente italiana, che invoca le virtù civili ormai solo in riferimento all’evasione fiscale, senza comprendere la regola elementare che sta alla base della vita in comune: se uno 'spot progresso' condanna il «parassita sociale» e quello successivo spinge il gioco d’azzardo, i due segni si annullano l’un l’altro. La vera lotta all’evasione si chiama coerenza etica, che diventa forza politica e amministrativa.Una seconda grande parola dell’attesa è 'relazioni'. Sono impressionanti i dati sull’aumento della litigiosità nel nostro Paese durante questa crisi. Dai condomini ai rapporti con i colleghi, dal traffico alle denunce a maestri e dottori, la crisi sta incattivendo le relazioni di prossimità – sebbene, come sempre accade, questi anni vedano anche il fiorire di nuove esperienze di relazioni virtuose e produttive. Il peggiorare delle relazioni è un dato preoccupante, perché altre gravi crisi che abbiamo attraversato (pensiamo alle grandi guerre e alla dittatura) avevano nella sofferenza rinsaldato i legami sociali, ri-creato amicizia e concordia civile che furono essenziali anche per la ripresa economica. Se non saremo capaci di curare le nostre antiche e nuove malattie relazionali (che cos’è la corruzione se non relazioni malate che creano istituzioni malate che a loro volta riproducono relazioni ancora più malate?), nessuna economia, che è prima di tutto un intreccio di relazioni, potrà mai ripartire.Infine, una terza parola è 'imprenditore'. I grandi maestri dell’attesa sono stati e sono i contadini, gli artisti, gli scienziati, soprattutto le madri. Ma anche l’imprenditore. I veri imprenditori, tutti e soprattutto quelli mediopiccoli, i cooperatori, gli imprenditori civili e sociali, oggi stanno soffrendo molto, più di quanto si dica e si racconti. Questi imprenditori nei decenni passati sono stati capaci di creare valore dai valori 'mettendo a reddito' le vocazioni produttive e cooperative delle nostre valli, dei borghi, delle montagne, delle coste e del mare, e oggi vedono svanire ricchezza e lavoro per le strette creditizie, per la mancanza di politiche di sistema, e per l’invasione di speculatori che spiazzano e spesso mangiano le loro imprese. L’imprenditore è uomo e donna dell’attesa, perché vive solo se è capace di sperare (la speranza, altra virtù civile), perché se non sperasse che il mondo di domani potrà essere migliore di quello di oggi, farebbe meglio a godersi le sue risorse, o a speculare in cerca di profitti (solo degli speculatori senza scrupoli possono fare miliardi di profitti inquinando e uccidendo territori e persone). Chi ha generato e fatto crescere un’impresa sa che i momenti più importanti della sua storia sono stati quelli nei quali è stato capace di attesa di una salvezza e di speranza contro gli eventi, contro i consigli prudenti degli amici ('ma chi te lo fare?'), contro le previsioni degli esperti ('ma perché non vendi?'), quando ha avuto la forza di insistere e credere nel suo progetto. Il mondo - e in esso l’Italia - vive ancora perché esistono persone capaci di attendere e di sperare in una salvezza, in attesa di un’alba, di un Natale.