Cassandra: «Sbaglio, o colpisco nel segno come un arciere? O forse sono un falso profeta, che bussa alle porte per spendere ciarle? Sii mio testimone, e giura che sto riconoscendo le scelleratezze di questa casa, antiche per fama! (…) Ancora una volta il terribile travaglio di vaticinare verità mi vortica dentro, sconvolgendomi con i suoi preludi dolorosi»
Eschilo, Agamennone
Quando nella vita abbiamo coltivato una grande illusione, la gestione della delusione è sempre molto complicata ed estremamente dolorosa. Se poi il tempo dell’illusione è stato vissuto in buona fede e per molti anni, quando si intravvede arrivare il possibile giorno della delusione, quasi sempre preferiamo restare illusi. Perché chiamare l’illusione con il suo vero nome significa dover pronunciare parole troppo dolorose per poterle dirle fino in fondo: fallimento, (auto)inganno, immaturità, manipolazione. E invece basterebbe capire che la delusione è la sola fioritura buona dell’illusione, e viverla come un passaggio benedetto per portare buoni frutti, e poi concludere nella verità il nostro viaggio sotto il sole. Nella lotta tra illusione e delusione – e di autentica agonia si tratta, soprattutto nelle persone giuste e oneste – l’esito dipende decisamente da chi ci ritroviamo accanto nell’agone. Se per compagno abbiamo uno o più falsi profeti, restiamo imprigionati nell’illusione, continuiamo a negare la realtà, anche quando è ovvia e evidente a tutti. Perché i falsi profeti sono maestri nel presentare i fatti contrari alla loro ideologia come l’ultima prova da superare per essere finalmente pronti per la vera salvezza. Se invece nella lotta incontriamo un profeta vero, l’età dell’illusione può finalmente terminare, e il dolore cattivo e oppressore trasformarsi nel buon travaglio delle liberazioni. Di fronte al crollo totale e definitivo di quella che ci era sembrata per tanto tempo la vita più bella e vera sulla terra e in cielo, la sola salvezza possibile sta nell’accogliere docilmente la delusione. Invitarla a cena, mettere le tovaglie e le posate più belle, stappare il vino migliore in cantina. E poi far festa insieme, invitando i pochi amici veri e i pochissimi profeti. Senza questa cena di riconciliazione non possiamo scoprire, un giorno, che quella vita era bella davvero, forse più bella ancora di come l’avevamo immaginata.
«Geremia uscì da Gerusalemme per andare nella terra di Beniamino a prendervi una parte di eredità tra i suoi parenti. Ma alla porta di Beniamino si imbatté in un incaricato del servizio di guardia chiamato Ieria; costui arrestò il profeta Geremia dicendo: "Tu passi ai Caldei!". Geremia rispose: "È falso! Io non passo ai Caldei". Ma quegli non gli diede retta. E così Ieria arrestò Geremia e lo condusse dai capi. I capi erano sdegnati contro Geremia, lo percossero e lo gettarono in prigione nella casa di Gionata (...) Geremia entrò in una cisterna sotterranea a volta e rimase là molti giorni» (Geremia 37, 11-16). Siamo arrivati all’ultimo blocco della storia di Geremia, narrataci da Baruc. È il ciclo del cosiddetto "martirio di Geremia". Il suo calvario, la sua passione. E le analogie vivissime con il racconto della passione di altri giusti sono molte e importanti. Le percosse, gli interrogatori, i dialoghi segreti notturni, la cisterna e il fango. Possiamo conoscere i vangeli, la vita, la passione e la morte di Gesù Cristo senza aver mai letto la Bibbia, i profeti, Giobbe, Geremia. Lo possiamo fare, tanti lo hanno fatto, moltissimi continuano a farlo. Ma possiamo leggere i vangeli insieme a tutta la "Legge e i profeti", e allora impariamo a conoscere un altro cristianesimo, iniziamo un’altra vita spirituale, e, forse, incontriamo un altro Cristo.
In un momento di allentamento della morsa dell’assedio dei babilonesi perché impegnati sul fronte egiziano (37,11), Geremia, ancora libero di muoversi (37,4), esce dalla città forse per l’acquisto di quel terreno in Anatot di cui ci parla il grandioso episodio del capitolo 32. Viene fermato e accusato di collaborazionismo con il nemico, e gettato in una cisterna. Come Giuseppe, un altro giusto, il primo profeta della storia della salvezza, anche lui accusato dai fratelli per le sue parole diverse, per i suoi sogni profetici veri e scomodi. Anche lui salvato e non lasciato morire nella cisterna: «Il re Sedecìa mandò a prendere Geremia e lo interrogò in casa sua, di nascosto: "C’è qualche parola da parte del Signore?". Geremia rispose: "Sì" e precisò: "Tu sarai dato in mano al re di Babilonia"» (37,17).
È straordinaria e impressionante la fedeltà di Geremia alla parola: lo abbiamo visto molte volte ormai, ma ogni volta continua a stupire e a lasciarci senza fiato. Il re lo manda a chiamare nel carcere, in cerca di parole diverse dal profeta, forse pensando che il cambiamento del contesto geopolitico e il ritorno dell’impero egiziano avrebbe prodotto un’altra profezia e un altro esito. Con Geremia questi giochi non funzionano, neanche nella disperazione generale. E dal fondo della sua cisterna, anziano e sfinito, ridice al re le stesse parole di sempre: l’unica salvezza è la resa, i caldei torneranno, occuperanno Gerusalemme e il tempio. È finita.
Un altro episodio che parla molto e forte, che ci dice molte cose. Tra queste l’ambivalenza radicale di questo re (e del potere in generale), che da una parte sembra dare credito a Geremia e gli chiede un nuovo oracolo, e, dall’altra, vorrebbe suggerire lui a Geremia quali parole dire, certamente diverse da quelle che Geremia aveva sempre detto. Il re cerca consolazioni, Geremia obbedisce alla verità. Sedecìa fa come chi di fronte a una scelta decisiva sente il bisogno di un "profeta" che lo consigli e consoli, ma non ha la forza morale di andare da qualcuno onesto e vero perché potrebbe dargli un consiglio scomodo; e così cerca, a volte inconsciamente, un padre spirituale o uno spiritual coach manipolabile che gli consiglierà quella scelta che lui ha già deciso in cuor suo di fare. Discernimenti bugiardi senza amore per la verità, i tipici inganni coltivati sempre dai falsi profeti. Infatti, Geremia aggiunge: «E dove sono i vostri profeti che vi predicevano: "Il re di Babilonia non verrà contro di voi e contro questo paese"?» (37,18). Come a dire: se vuoi le solite bugie consolatorie rivolgiti ai tuoi profeti di corte, ai ruffiani che ti hanno sempre detto quello che volevi sentire, e ti hanno spinto nel baratro. Geremia invece resiste fino alla fine, non diventa servo del potere e delle sue finzioni. Geremia è grande per molte cose, ma è immenso per questa fedeltà senza condizioni alla parola e alla propria dignità. Davanti alla disfatta ormai imminente del re e del popolo poteva cedere alla pietas umana e dire una parola di consolazione – come chi, al capezzale di un amico che sta arrivando alla fine, gli dice con amore: "Vedrai che ti riprenderai". Noi lo facciamo, Geremia no: per ripeterci il valore assoluto della verità della parola, in ogni circostanza, anche la più drammatica. Anche quando la verità sembra, a qualcuno, entrare in conflitto con le esigenze della carità, Geremia ci dice che il solo modo di tradire certamente la carità è rinunciare a servire la verità della parola. Gli sconti, i saldi, i condoni... i profeti li lasciano ai nostri commerci, di ieri e di oggi.
Il dialogo segreto tra il profeta e il re continua: «Geremia poi disse al re Sedecìa: "Quale colpa ho commesso contro di te, contro i tuoi ministri e contro questo popolo, perché mi abbiate messo in prigione? Ora ascolta, o re, mio signore: la mia supplica ti giunga gradita. Non rimandarmi nella casa di Gionata, lo scriba, perché io non vi muoia". Il re Sedecìa comandò di custodire Geremia nell’atrio della prigione e gli fu data ogni giorno una focaccia di pane, proveniente dalla via dei fornai, finché non fu esaurito tutto il pane in città» (37,18-20). In questo dialogo, le parole di Geremia non sono precedute da "Così dice YHWH", né da "Oracolo del Signore". Ci troviamo di fronte ad un dialogo tra due uomini, tra un sovrano e un profeta, tra un re e un suo prigioniero. Le parole di Geremia nel libro di Geremia non sono tutte parole di YHWH. Ci sono anche molte parole di Geremia e basta, che non sono meno belle e importanti – come il racconto della sua vocazione, delle sue prove, i suoi canti intimi. Questa preghiera che ora l’anziano profeta, sfinito dalla prigionia, rivolge al re, non è né un gesto profetico né un comando di Dio. È soltanto una parola di Geremia di Anatot. Una parola come le tante che i sofferenti gridano ai potenti che possono liberarli. Forse, tutti gli "oracoli" ricevuti nel corso della nostra esistenza hanno composto un capitale che spenderemo quando dovremo raggiungere la cima del nostro Golgota, dove ricorderemo solo una di quelle parole ascoltate e dette, e ci comporremo il nostro salmo di abbandono.
Nei capitoli del suo martirio, narrati dal suo scriba Baruc, anche Geremia appare sempre più indifeso, solo, in balìa dei capi dei suoi nemici. Le parole che ripete sono quelle che ha sempre detto: «"Così dice il Signore: chi rimane in questa città morirà di spada, di fame e di peste; chi si consegnerà ai Caldei vivrà e gli sarà lasciata la vita come bottino e vivrà. Così dice il Signore: certo questa città sarà data in mano all’esercito del re di Babilonia, che la prenderà"» (38,2-3). Non ha altre parole da dire. E così i ministri e i generali ancora catturati dell’ideologia nazionalista e guerriera, chiedono al re che Geremia venga di nuovo arrestato. E il re Sedecìa risponde: «"Ecco, egli è nelle vostre mani; il re infatti non ha poteri contro di voi"» (38,5). Non poteva mancare Pilato in questa passione - non manca quasi mai nelle passioni vere degli uomini e di Dio: «Essi allora presero Geremia e lo gettarono nella cisterna di Malchia, un figlio del re, la quale si trovava nell’atrio della prigione. Calarono Geremia con corde. Nella cisterna non c’era acqua ma fango, e così Geremia affondò nel fango» (38,6). Geremia affonda nel fango. Noi possiamo vederlo affondare e continuare i nostri affari baloccandoci nelle nostre illusioni. Oppure possiamo decidere di sprofondare con lui, e attendere una salvezza nella cisterna, ma senza sapere se verrà un eunuco etiope a salvarci. Perché non ci sono abbastanza "etiopi" per salvare tutti i Geremia che continuano ad affondare nel fango del mondo.
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