Un Mirage 2000-5 in una base militare di Taiwan - Reuters
Oggi l’Ucraina, domani Taiwan? Davvero i due Paesi sono accomunati da uno stesso, tragico, destino? Periferie di ex imperi revanscisti, entrambi antitetici all’Occidente, i due si differenziano in molto. Taiwan non offre continuità territoriale all’ingombrante vicino, l’Ucraina confina invece direttamente con la Russia. Muovere truppe e materiali è molto più facile nel secondo che nel primo caso. Kiev è la capitale di uno stato indipendente, riconosciuto dalle Nazioni Unite. Taiwan non gode delle stesse guarentigie. Il Taiwan Relations Act del 1979, che sancisce un’alleanza di fatto fra Taipei e Washington, è ambiguo. Formosa è un simbolo di democrazia per Biden e per l’Occidente, ma non ci sono automatismi, né obblighi di intervento. La decisione finale spetta sempre all’esecutivo americano.
L’unico vincolo sono le forniture militari difensive. Ecco perché Pechino considera Taiwan un affare puramente interno. Ma da qui a parlare di riunificazione con la forza ce ne vuole. E infatti molti analisti ritengono improbabile un assalto cinese all’isola “ribelle”. Per geografia marittima e terrestre, Formosa non si presta a un’operazione militare. Diversamente dalla Normandia del 1943 o da Incheon nella Corea del 1950, la Cina non avrebbe dalla sua la sorpresa strategica. Lo stretto è sorvegliato da radar, navi, aerei e satelliti di Taipei, degli Stati Uniti e del Giappone, sempre più presente nell’area.
I fondali marini dell’isola sono bassi, poco favorevoli a unità di grossa stazza. Sono un terreno ideale per mine di ogni genere, incubo per le navi attaccanti. Per forzare gli accessi a Taiwan, Pechino dovrebbe dominare i cieli. Da anni, gli scenari parlano di 1.000-1.200 missili cinesi puntati contro Taiwan, affiancati da centinaia di jet e di droni. Ma un conto sono le simulazioni, un altro la realtà. I russi se ne sono accorti in Ucraina. Quella cinese dovrebbe essere un’operazione di annientamento mirato. Si tratterebbe di bombardare a tappeto senza colpire la popolazione.
Un’impresa impossibile, perché i siti strategici ricadono tutti in zone a densità umana molto alta. Taiwan sarà pure essenziale per la Cina, ma Pechino considera gli abitanti dell’isola suoi fratelli di sangue. E se anche i cinesi riuscissero a far fuori i centri di comando, i radar, le installazioni di guerra elettronica e le basi aeree taiwanesi, per sbarcare nell’isola dovrebbero conquistarne i porti, perché non ci sono altre sezioni del litorale favorevoli. I marines di Pechino dovrebbero incunearsi in spazi esigui. Sarebbero inondati da forze nemiche. La struttura delle loro forze anfibie è inadatta ad operazioni in uno stretto ampio fino a 200 chilometri, difficile da solcare. Secondo stime statunitensi, per sbarcare 20 divisioni e relativi approvvigionamenti occorrerebbero alla Cina 600 navi, libere per 15 giorni. Un volume di forze che Pechino non ha.
La maggior parte della sua flotta è costituita da piccole unità, capaci di trasportare gli equipaggiamenti solo sulle spiagge, a discapito di qualsiasi concezione d’attacco “oltre la vista”, antitesi di ogni sorpresa tattica. La logistica è la colonna portante di ogni guerra. Ne decide le sorti. Chiedetelo ai russi in Ucraina. Se pure i cinesi si ostinassero ad attaccare, gli americani starebbero forse a guardare? Con loro, interverrebbe anche il Giappone: Tokio sa che se cadesse Formosa la prossima vittima sacrificale sarebbero le sue isole, rivendicate dalla Cina. Ma tutti, a Washington, come a Pechino, a Taipei e a Tokio, sanno che un conflitto generalizzato avrebbe conseguenze devastanti. La guerra non produrrebbe vincitori, ma solo sconfitti, devastazioni e lutti. Proprio come in Ucraina.