domenica 23 marzo 2025
In “A Roma non ci sono le montagne” la scrittrice dà voce a chi mise la bomba:«Erano di buona famiglia e istruiti. Dare la morte fu una scelta difficile. Ne racconto amori e sogni. E l'oblio»
I resti dei militari del Polizeiregiment "Bozen" caduti nell'attentato di via Rasella allineati sul ciglio della strada, 23 marzo 1944

I resti dei militari del Polizeiregiment "Bozen" caduti nell'attentato di via Rasella allineati sul ciglio della strada, 23 marzo 1944 - WikiCommons

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Una giornata di marzo. Il sole di inizio primavera, l’aria limpida. Gli occhi puntati sull’angolo della strada, le mani contratte. Due ore trascorse in attesa, le truppe che non arrivano. Infine, a un passo dal desistere, Cola si toglie il cappello. È il segnale: Sasà apre il bidone. L’esplosione scuote la Capitale. È il racconto dell’agguato di via Rasella del 23 marzo 1944, uno dei più clamorosi e discussi episodi della Resistenza italiana ed europea al nazismo, visto con gli occhi dei giovani patrioti che lo idearono e vi parteciparono. Sono loro i protagonisti di A Roma non ci sono le montagne, il nuovo romanzo di Ritanna Armeni (Ponte alle Grazie, pagine 240, euro 18,00) che torna a indagare il periodo cupo della Roma occupata, dopo Il secondo piano in cui nel 2023 raccontò il salvataggio di alcune famiglie ebree in un convento.

Ritanna Armeni, perché un romanzo su una pagina della Resistenza già molto descritta e discussa?

«Il mio romanzo nasce da letture e approfondimenti su quei giovani partigiani dei Gap di Roma (Gruppi di azione patriottica, le unità partigiane del Partito comunista italiano ndr), che dopo la fine della guerra, nonostante le onorificenze ricevute, sono stati dimenticati e additati come responsabili per il successivo eccidio nazista delle Fosse Ardeatine. Attraverso il racconto delle due ore che trascorsero in via Rasella, in attesa delle truppe tedesche, ho potuto descriverne la vita, gli amori, i sentimenti, il rapporto con la morte che si teme e la morte che si dà».

Nel romanzo non parla mai di attentato bensì di azione: sulla differenza tra l’uno e l’altra si sono scritte decine di libri. Dopo la guerra sugli ardimentosi di via Rasella scese una cappa pesante. Come ha risolto questo nodo?

«La parola attentato evoca il terrorismo, e dunque la volontà di dare la morte a innocenti in nome di un’idea. Quella di via Rasella fu un’azione di guerra contro un esercito occupante, compiuta da membri dei Gruppi di azione patriottica il cui obiettivo era la liberazione dell’Italia. Un’altra parola alla quale bisogna porre attenzione è “conseguenza”. Si dice spesso che l’eccidio nazista di 335 romani innocenti alle Fosse Ardeatine, il 24 marzo, sia stato una conseguenza di via Rasella. E “conseguenza” diventa immediatamente “corresponsabilità”. Non è così: i tedeschi avrebbero potuto usare altri tipi di rappresaglia già applicati a Roma, dal coprifuoco agli arresti, dalle torture ai divieti di circolazione. In precedenza non era mai accaduto nulla di simile alle Fosse Ardeatine: le altre grandi stragi naziste, da Sant’Anna di Stazzema a Marzabotto, sono avvenute solo dopo».

Il libro è sottotitolato Il romanzo di via Rasella: lotta, amore e libertà: si può dire che lei ha scelto un modo sentimentale per riportare in primo piano la verità storica di ciò che fu quell’azione partigiana?

«In un certo senso sì. Volevo che la storia emergesse attraverso i sentimenti dei protagonisti, un gruppo di giovani audaci che avevano deciso di mandare questo messaggio alla città, senza godere della protezione territoriale su cui contavano i partigiani altrove: le grotte, gli anfratti, i rifugi isolati. Ecco perché il libro si intitola A Roma non ci sono le montagne: nella città occupata al massimo ci si poteva rifugiare in un portone o in convento. I giovani di via Rasella si muovevano in una città in cui il nemico era ovunque. La scommessa del libro è fare conoscere davvero la loro vita, i loro sogni, il loro desiderio di libertà. Non si tratta però di riabilitare loro, bensì la verità storica. Erano borghesi, di buona famiglia, studiosi, con un alto livello culturale. C’erano anche coppie di fidanzati e ragazze intrepide. Dopo la guerra diventeranno docenti universitari, matematici, letterati e giornalisti. Ecco, ho voluto raccontare questo mettere a disposizione la propria vita per un desiderio di libertà».

E anche però toglierla ad altri giovani come loro, ma in divisa.

«È stata sicuramente una scelta difficile. Una dei componenti dei Gap, Lucia Ottobrini, era credente. In una preghiera dice: Gesù, so che non approvi quello che stiamo facendo e che si ammazzino delle persone, ma io in questo momento non posso fare altro. Questo episodio mi ha commosso, perché ho capito che per questi ragazzi dare la morte era una violenza anche su sé stessi. Mi ha colpito che tra loro ci fossero relazioni d’amore molto intense, e che erano appassionati di poesia, di scrittura, di musica. Tra i gappisti di via Rasella c’era chi traduceva Proust e chi camminava sempre con un libretto con le poesie di Montale in tasca, chi suonava l’arpa. Insomma, era un mondo di ragazzi borghesi che avrebbero potuto fare ben altre scelte».

Come è nato questo romanzo?

«È nato il giorno in cui passando per Via Rasella mi sono resa conto che non c’era nulla che ricordasse il 23 marzo 1944, quella che fu la più clamorosa azione partigiana nell’Europa occupata dai nazisti. Mi sono stupita, ho iniziato a fare qualche ricerca e ho scoperto che nonostante i protagonisti dell’azione siano stati successivamente insigniti di medaglie d’oro e d’argento, le ceneri di due di loro, Sasà Bentivegna e Carla Capponi, non hanno trovato sepoltura in nessun cimitero, nemmeno in quello acattolico, e alla fine sono state disperse sul Tevere».

Lei racconta le personalità di questi ragazzi anche con tenerezza. Ce n’è uno a cui si è particolarmente affezionata?

«Mi ha colpito in particolare Carla Capponi. Quando, decenni dopo, raccontava il giorno di via Rasella, descriveva un cielo grigio, nuvoloso, opprimente. Ma in verità a Roma c’erano 26 gradi e un sole splendente: lei raccontava la sua anima, che in quel momento era terrorizzata e piena di angoscia».

Nei Gap c’erano diverse donne; che ruolo avevano?

«Le partigiane nella Roma occupata erano più autonome rispetto alle colleghe che si nascondevano sulle montagne. Si muovevano nella città più liberamente degli uomini, perché nessuno perquisiva la borsetta di una donna, e invece magari dentro c’era una rivoltella o una bomba. Nel mio libro ne racconto in particolare tre: Lucia Ottobrini, Carla Capponi e Maria Teresa Regard. Donne autonome, che decidevano da sole quali azioni intraprendere».

Si dice anche che se i gappisti si fossero consegnati, le Fosse Ardeatine si sarebbero potuto evitare. È vero?

«Che i gappisti si fossero rifiutati di consegnarsi è una menzogna facilmente dimostrabile. Più difficile contrastare l’idea che si trattasse di un manipolo di ragazzini incoscienti, manipolati e la cui irresponsabilità ha portato a un eccidio terrificante. Ma noi sappiamo che gli Alleati chiedevano che Roma si ribellasse, che fossero attuate azioni contro i tedeschi. Il Comitato di liberazione nazionale sapeva e condivideva».

Come mai due libri consecutivi ambientati nella Roma occupata?

«Ciò che mi affascina è la resistenza delle persone. Credo sia un tema sempre attuale: in quali forme si può resistere in situazioni che sembrano impossibili? C’è la resistenza armata che racconto in A Roma non ci sono le montagne, ma c’è anche la resistenza non armata di chi li ha aiutati a vivere, mangiare, dormire, proteggendoli e nascondendoli in una città dove non ci sono grotte e anfratti. È questa la resistenza a cui oggi anche noi siamo chiamati: resistere alla disinformazione e alle bugie».

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