La Norvegia ha annunciato di avere sospeso le sue esportazioni di armi e munizioni verso gli Emirati arabi uniti, a causa del loro coinvolgimento nella guerra in Yemen dove continuano a morire civili inermi. L’Italia, al contrario, non indietreggia. Potrebbe però essere l’Arabia Saudita a toglierci d’impaccio. In accordo con la multinazionale Rwm, da quasi due anni Riad sta lavorando alla messa in opera di una propria autonoma linea di produzione delle bombe aeree finora fabbricate in Sardegna.
«Lo sviluppo del conflitto armato in Yemen nel corso dell’autunno 2017 è stato grave, e ci sono forti preoccupazioni per la situazione umanitaria», ha sottolineato il ministero degli Esteri di Oslo. Sono così tre i Paesi europei che hanno interrotto la fornitura di armi da guerra agli Stati della coalizione saudita che sta combattendo nello Yemen. Anche Olanda e Germania avevano infatti bloccato l’export. Berlino, pur non interrompendo le intese su altri sistema di difesa attualmente non usati contro lo Yemen, aveva però fermato le consegne delle bombe prodotte dalla Rwm, la multinazionale tedesca che ha ripiegato sullo stabilimento italiano di Domusnovas, da cui ancora nei giorni scorsi è partito un nuovo carico di ordigni. Dall’interno dell’azienda, intanto, si moltiplicano le accuse rivolte in particolare ai media, specie dopo il recente reportage del "New York Times", che «con le loro inchieste rischiano di farci perdere il lavoro».
In verità, Rwm sta pensando da ben prima che scoppiassero le polemiche a una conveniente delocalizzazione. A quanto risulta ad Avvenire, da tempo il gruppo Rheinmetall stava pensando di mettere un piede laddove gli affari sono migliori e i costi di produzione più bassi. Nel marzo del 2016 la multinazionale tedesca, appoggiandosi alla controllata sudafricana Rheinmetall Denel Munition (Rdm) e d’intesa con la Saudi Military Industries Corporation (Samic), ha inaugurato a sud di Riad uno stabilimento nel quale vengono prodotte e assemblate bombe da artiglieria e ordigni aerei del tipo attualmente commissionato allo stabilimento sardo. Un investimento con un suo specifico peso politico: all’inaugurazione erano presenti il principe ereditario Mohammed bin Salman bin Abdelaziz e il presidente sudafricano Jacob Zuma. La fabbrica saudita, dove attualmente lavorano 130 addetti, ha però necessità di un periodo di rodaggio, perciò Domusnovas resterà ancora per qualche tempo il principale sito di approviggionamento tanto che Rwm Italia ha prospettato la possibilità di una momentanea espansione dell’area produttiva.
«La Rwm Italia, viste le necessità attuali, ha proposto piani per espandersi; ma presto la produzione più lucrosa (nel 2016 ammontavano a 411 milioni di euro le commesse per le bombe destinate ai sauditi) potrebbe essere assunta proprio dallo stabilimento in Arabia Saudita», conferma Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa di Brescia.
Forse non sapendo dell’esistenza dei piani di delocalizzazione della produzione, i sindacati sardi nello scorso luglio avevano respinto i «fantomatici progetti di riconversione» perché otterrebbero come «unico risultato la chiusura dello stabilimento Rwm Italia e il suo trasferimento in un altro Paese Ue». Dichiarazioni arrivate oltre un anno dopo l’apertura di una analoga fabbrica in Arabia Saudita.
Il 3 dicembre il Comitato di cittadini per la riconversione della fabbrica ha inviato una lettera aperta in cui chiede «un confronto aperto e sincero con tutti per trovare insieme il coraggio e sostenere insieme percorsi nuovi che costruiscano pace e dignità nel lavoro per noi e per chi paga sulla propria pelle le scelte della nostra “civiltà”». Non è un confronto facile, in un territorio nel quale le armi da guerra sono la principale, ed anche l’unica, fonte di reddito.
«La Sardegna – scrive il comitato per la riconversione – si mostra così vittima e complice di politiche di guerra. Una regione così ricca di opportunità potrebbe avere uno sviluppo armonico, coordinato fra i vari settori, sufficiente per i propri abitanti e per trattenere i giovani che emigrano: accetta invece di essere la terra che prepara la guerra con le sue basi e le sue fabbriche di armi». Non si tratta, dunque, di colpevolizzare i lavoratori, ma «creare i presupposti per uno sviluppo del territorio che sia pacifico e sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, come segno di volontà di pace dal basso che possa costituire uno stimolo alla cittadinanza attiva e alla politica, necessario in questo clima di “guerra mondiale a pezzi».
Ma il conflitto è sempre più al centro di una guerra di interessi su uno scacchiere più ampio. L’alleanza araba a guida saudita, che combatte in Yemen a fianco del governo internazionalmente riconosciuto del presidente Abd Rabbuh Mansur Hadi, ha accusato l’Iran di sostenere gli Houti, dopo che i miliziani sciiti hanno lanciato un missile balistico a corto raggio verso il territorio saudita. I ribelli yemeniti Houthi hanno detto di avere lanciato un nuovo missile, ma contro forze governative in Yemen, dopo uno diretto verso l’Arabia Saudita e che Riad ha detto di avere intercettato. La televisione Al Masirah, controllata dagli Houthi, ha precisato che il secondo vettore è stato lanciato verso le forze fedeli al presidente Abd Rabbo Mansur Hadi - sostenuto dai sauditi – lungo la costa occidentale dello Yemen. In precedenza l’emittente aveva annunciato il lancio di un missile Qaher-2M di fabbricazione sovietica verso un’installazione militare in Arabia Saudita, affermando che il vettore aveva colpito l’obiettivo. La televisione di Stato di Riad, invece, ha affermato che è stato intercettato sulla regione di confine di Najran.
La guerra che per l’Onu sta causando «la più grande crisi umanitaria del pianeta», sta determinando anche il ritorno della difterite, ovunque sconfitta da igiene e vaccini. A raccontarlo è la "Bbc", secondo cui nel remoto villaggio di Beit Al-Haboob oltre 40 persone avrebbero contratto il virus potenzialmente mortale e che avrebbe prodotto i primi tre decessi. Nel villaggio l’unico ospedale presente è stato chiuso, dopo che medici e infermieri sono andati via: dall’inizio del conflitto non percepivano alcun salario.
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