mercoledì 11 luglio 2018
La visita del remier etiope Abiy Ahmed all'Asmara e l'abbraccio con il dittatore eritreo Issaias Afewerki segna la fine della guerra africana mai finita. Ma è solo l'inizio di un lungo cammino
L'eritreo Issaias Aferki (sinistra, al centro) ha accolto domenica all'aeroporto dell'Asmara il premier etiope Abiy Ahmed (Ansa)

L'eritreo Issaias Aferki (sinistra, al centro) ha accolto domenica all'aeroporto dell'Asmara il premier etiope Abiy Ahmed (Ansa)

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storica visita del giovane premier etiope Abiy Ahmed all’Asmara domenica scorsa, l’abbraccio all’aeroporto con l’ex nemico, il vecchio despota eritreo Issaias Afewerki, le immagini della folla festante e assetata di normalità nelle vie della capitale, la firma che sancisce la fine dopo 20 anni dello stato di guerra e l’inizio di una stretta cooperazione, che riconosce i confini e concede all’Etiopia l’agognato sbocco al mare e la libertà di circolazione e comunicazione tra i due Paesi rappresentano una splendida notizia non solo per il Corno d’Africa.
Ma, accanto alle speranze, con realismo gli osservatori rilevano che è solo l’inizio di un lungo cammino per pacificare le due nazioni sorelle e la stessa Eritrea. La quale nei colloqui di pace era rappresentata da un presidente eletto per quattro anni anni fino allo scoppio della guerra 20 anni fa. Poi, con l’alibi della situazione di non guerra-non pace (l’Etiopia non aveva applicato il trattato di pace di Algeri e non aveva restituito il triangolo di sabbia attorno a Bademme, ndr) non si è più votato e Issaias si è trasformato nel 2000 da combattente per la libertà e l’indipendenza del suo Paese dall’Etiopia in un tiranno che ha, nell’ordine, sospeso la Costituzione, chiuso gli organi di informazione, imprigionato oppositori veri o presunti e ministri, intellettuali e compagni di partito che gli avevano chiesto di rispettare la democrazia.
Ha quindi chiuso l’università e militarizzato lo Stato imponendo il servizio militare illimitato da 17 a 50 anni ed espulso missionari e Ong perché «occidentali». In 20 anni di regime paranoico ha limitato gli spostamenti interni, vietato gli espatri e riempito le galere di dissidenti per motivi politici e religiosi e disertori, infiltrando il territorio nazionale di spie. Ha causato l’esodo di almeno due generazioni verso tutti i continenti, Africa compresa. L’Eritrea di Issaias Afewerki è così precipitata agli ultimi posti nelle classifiche mondiali di sviluppo e libertà. Dal 2009, inoltre, è soggetta ad embargo di armi dall’Onu per aver cooperato con i terroristi islamici in Somalia per destabilizzare l’area.
La diaspora ha subito chiesto che con la pace e la fine dello stato di emergenza arrivino non solo benefici economici e commerciali, ma la libertà con il ripristino della Costituzione sospesa – che comporta il ritorno alla democrazia con un sistema giudiziario indipendente e libere elezioni – e la fine del servizio militare a vita. Questo dovrebbe bloccare l’esodo che porta ogni giorno almeno 5mila eritrei in Etiopia. Questi temi non sono stati ufficialmente affrontati nei colloqui all’Asmara e nei discorsi ufficiali dei due leader, ma il giorno dopo balzano al primo posto in agenda. Ci si chiede se e quando comincerà la transizione democratica in Eritrea e chi la guiderà, se il tempo del regime è finito o se il dittatore proverà a restare arroccato al potere. Domande che toccano le vite sospese di decine di migliaia di persone. Dai 40mila circa intrappolati in Israele che il governo stava per deportare in Ruanda e Uganda alle migliaia di prigionieri dei trafficanti e delle milizie in Libia ai 58mila accolti nei campi profughi della stessa Etiopia. Riguardano anche tanti richiedenti asilo in Europa e in Italia perché se torna la libertà nell’ex colonia primigenia cade la motivazione per cui viene concesso lo status di rifugiato. È inevitabile a questo punto un’amnistia per chi è in carcere come disertore e per chi è fuggito all’estero per evitare la leva a vita mentre il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres ha dichiarato che non vede il motivo per cui le sanzioni proseguano.
Non sarà dunque un processo semplice. Se in Etiopia il premier – che a tre mesi dalla nomina ha già deciso la liberazione dei prigionieri politici e compiuto questo passo storico – deve affrontare la resistenza dei tigrini, che rivendicano i territori restituiti all’Asmara, e le pretese nazionaliste sul porto eritreo di Assab, in Eritrea occorre curare sofferenze decennali. Don Mosè Zerai, il prete dei migranti, egli stesso profugo eritreo, ha detto parole giuste: serve una riconciliazione nazionale che permetta a tutti di tornare e ricostruire il Paese.

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