Pattugliamento dei riservisti ucraini a ridosso del confine con i separatisti - Ansa
Questa volta non è rimasto più nulla da riparare, a casa di Nelly e di suo marito Nikolai. Erano già sopravvissuti ai bombardamenti del loro villaggio nel 2014, nelle fasi iniziali e più calde del conflitto nel Donbass, in Ucraina orientale. Con il resto della loro comunità erano riusciti a rimettersi in piedi, ad aggiustare ciò che era stato colpito e a riprendere la vita quotidiana.
Ora, nel piccolo insediamento di Nevelske, vicino alla linea di contatto che separa il territorio controllato dal governo ucraino dalle aree nelle mani dei ribelli filo-russi, alla coppia e agli altri residenti è toccato rivivere le stesse ore di terrore, la stessa tragedia di allora. Nella notte tra il 13 e il 14 novembre un attacco ha danneggiato 16 abitazioni e ne ha distrutte tre. Nelly e Nikolai, entrambi sopra i 60 anni, sono rimasti bloccati in una stanza della loro casa, per il resto ridotta in macerie.
La donna, alle tre del mattino, è riuscita a telefonare a un operatore della Ong Proliska e a lanciare l’allarme. Sono stati estratti vivi, ma i loro averi sono andati perduti, mobilio, vestiti, persino le scarpe. Anche senza la sciagurata ipotesi di un attacco militare da parte di Mosca, eventualità che ha fatto innalzare la temperatura delle relazioni internazionali dopo il dispiegamento di circa 100mila soldati russi vicino al confine ucraino, nel Donbass la popolazione civile assiste già a un brusco peggioramento della situazione.
Le diplomazie occidentali alternano toni aspri e perentori a tentativi di dialogo (come quello partito oggi a Ginevra tra Russia e Usa proprio sul rischio di un nuovo conflitto in Ucraina) per evitare che si ripeta quanto accaduto nel 2014, quando Kiev aveva perduto la Crimea, annessa dalla Russia, e per scongiurare una nuova fiammata nella guerra che da quasi otto anni, pur a bassa intensità, agita le due regioni di Donetsk e Luhansk.
Il punto è che il confronto bellico tra esercito ucraino e ribelli pro-Mosca è già tornato aspro. «In alcune zone si era vissuto un lungo periodo di silenzio delle armi e di calma che si pensava potesse durare, e addirittura significare la fine della fase più calda del conflitto. Non è più così», ci dice al telefono da Kharkiv Leonid Nikolaevich della Ong Proliska.
L’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce) monitora e tiene il conto delle violazioni del cessate il fuoco (l’ultimo della serie, siglato a luglio 2020): il Rappresentante nel Paese, l’Ambasciatore Mikko Kinnunen, il 22 dicembre, riferiva «di cinque volte più violazioni del cessate il fuoco al giorno questo mese rispetto al dicembre 2020». Se nel primo trimestre del 2021 le violazioni erano state 8.700, fra aprile e giugno se ne erano contate quasi 27mila e nei tre mesi estivi 21mila. Il numero di episodi (tra cui esplosioni imputabili al fuoco di artiglieria, mortai e di carri armati) da ottobre a dicembre è balzato a quota 36.800. Gli interventi delle organizzazioni umanitarie sulla linea di contatto sono tornati alla fibrillazione degli anni passati.
Così è per la Ong ucraina Proliska, partner di Acnur-Unhcr, che nell’area sotto controllo di Kiev dispone di uno staff di cento persone in una decina di sedi. Dal 2014 si occupa di protezione delle comunità locali e di casi di emergenza, come accaduto con Nelly e suo marito, ma anche di trasporto su bus sociali negli insediamenti più isolati (in tempi di Covid, anche per raggiungere i centri vaccinali), assistenza domiciliare per non autosufficienti, ripristino di pozzi e sistemazione di strutture danneggiate. Garantisce il sostegno psicologico, tanto prezioso dopo quasi 8 anni di conflitto, e alloggi in insediamenti sicuri, per i civili che necessitino di trasferirsi.
«Cerchiamo di rendere meno dura la vita della popolazione locale e degli sfollati», ci spiega Leonid Nikolaevich, a cui chiediamo di commentare gli sviluppi di queste ultime settimane. «Non entriamo nel merito di cosa faccia una parte o l’altra, siamo neutrali e ci concentriamo sui bisogni dei civili. Registriamo, certo, episodi bellici sempre più frequenti, davvero in gran numero, quasi ai livelli del 2015. È così da inizio ottobre e la popolazione soffre. Non siamo in grado di prevedere cosa accadrà, ma siamo pronti a dare una mano, come all’inizio del conflitto».
La pandemia non ha fatto altro che rendere la vita ancora più complicata, per le restrizioni di movimento ai check point, limitando ancora di più i servizi di base, quasi impossibili da raggiungere. Per questo, anche senza la temuta incursione su vasta scala delle truppe russe, nel Donbass l’esistenza è già oggi carica di rischi e fatiche, già fin troppo tormentata.