Amministrazione di Odessa
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Per tutta la notte la gente di Odessa, già costretta in casa dal rigido coprifuoco prolungato proprio in occasione del 9 maggio, ha dovuto sigillare le finestre e tappare ogni fessura. L’incendio dei bersagli colpiti ha incenerito ogni cosa e sprigionato un’ondata di fumi tossici che hanno provocato in chi ha inalato l’aria avvelenata irritazioni e insufficienza respiratoria, cefalee, nausea, con continue chiamate al pronto soccorso e di mattina presto la corsa verso le farmacie cercando spray che dessero sollievo. Molti hanno temuto che fossero state sganciate bombe al veleno.
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Quella di Odessa è la regione costiera ucraina dalla quale i carri armati russi restano più lontani, ma è tra le più colpite negli ultimi giorni. Bombardamenti che non hanno alcuno scopo tattico e che quasi mai riescono a centrare gli obiettivi militari. Una imprecisione di tiro talmente marcata da cancellare ogni residuo dubbio sulla reale volontà di colpire obiettivi civili.
Ad oggi le forze di Mosca non hanno alcuna concreta possibilità di mettere piede nella «Regina del Mar Nero». Perciò i bombardamenti sembrano avere due soli scopi: proseguire la rappresaglia rivendicata da Putin nel modesto proclama sulla Piazza Rossa (quando sono sparite dal dizionario dello zar i nomi di città come Kiev o Leopoli, ma sono rimaste le mire sul Donbass) e il rancore per l’eccidio di filorussi avvenuto a Odessa il 2 maggio 2014.
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I raid compiuti proprio il 2 maggio non sono stati che l’anticipo della brutale aggressione dall’alto piovuta su centri commerciali, alberghi, chiese ortodosse, condomini. Una battaglia di missili combattuta sia con vecchi razzi, imprecisi ma potenti come mai ne aveva dovuti subire la città, sia con armi di ultima generazione. Da quanto si apprende la Russia ha usato missili cruise, comprese le nuove armi ipersoniche «Kinzhal». Non hanno un nome a caso. Vuol dire «pugnale», e con la stessa intenzione sono stati usati per colpire obiettivi senza difese e civili sbalzati dall’onda d’urto. Uno tsunami di aria compressa che fa diventare proiettile anche le lampade dell’illuminazione stradale.
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Il campionario dei danni dell’ultima settimana è lo specchio fedele della sproporzione tra chi indossa una divisa e chi mette il pigiama ai bambini. Sono stati devastati due alberghi, un centro commerciale, un deposito di merci, palazzi con appartamenti e un bilancio provvisorio di un morto e cinque feriti. Negli ultimi giorni le autorità hanno dichiarato inagibili quasi 300 alloggi. Secondo quanto riferiscono fonti dell’intelligence occidentale, è «la seconda volta dall’inizio del conflitto che i russi usano il missile balistico ipersonico Kh-47M2 Kinzhal, che ha fatto il suo esordio in combattimento il 19 marzo scorso». In quell’occasione fu lanciato da un aereo Mig-31K, contro un deposito di munizioni sotterraneo a Delyatyn, nella regione di Ivano-Frankovsk, non lontano dal confine con la Romania, secondo quanto confermato a suo tempo dal ministero della Difesa a Mosca.
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La città portuale sul Mar Nero è il principale scalo delle esportazioni agricole ucraine. Il governo di Kiev nelle settimane scorse aveva tentato di riavviare, seppure al minimo, la macchina dell’export investendo sull’unica alternativa disponibile: un corridoio via terra che dalla regione di Odessa conduce nel distretto della Bessarabia, l’ultimo lembo di Ucraina, confinante con la Romania. La destinazione individuata era il porto rumeno di Costanza, da cui far ripartire i cargo con le derrate alimentari. Ma proprio quando i container carichi di grano hanno cominciato a percorrere quei 450 chilometri, l’artiglieria di Mosca ha preso a bombardare il ponte mobile di Zatoka.
L’infrastruttura consentiva di superare l’estuario del fiume Dnestr evitando un percorso più tortuoso e con implicazioni geopolitiche. La via alternativa prevede infatti l’ingresso e l’uscita nella Moldavia (paese extra Ue) con l’obbligo di avviare dunque le pratiche doganali per ogni spedizione, oltre a una dilatazione dei tempi di percorrenza e all’aumento dei costi. Non bastasse, anche la Moldavia è messa a dura prova dalla riapparizione dell’opposizione politica dichiaratamente filorussa, in ottimi rapporti con i separatisti filorussi della repubblica non riconosciuta di Transnistria. Proprio qui, come denunciano da settimane le autorità della capitale Tiraspol, vengono segnalati sabotaggi e attentati che potrebbero impegnare i 1.500 uomini dell’esercito russo dispiegati come «forza di pace» nella provincia moldava ribelle.
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Ma è anche a Nord che si guarda. L’esercito bielorusso è in grado di «infliggere danni intollerabili ai suoi nemici» in caso di attacco, ha minacciato ieri il presidente bielorusso Alexander Lukashenko. Minsk ha schierato forze speciali alle sue frontiere con l’Ucraina, sostenendo che si tratta di una «mobilitazione difensiva» a seguito del rafforzamento delle forze armate di Kiev oltre confine. Mentre le macerie di Odessa, fortunatamente ancora fuori dalle meraviglie del centro storico, dicono che il tempo del rancore non è ancora passato e che se la guerra è persa, quando finirà ci sarà poco da festeggiare.