
Vladimir Putin - Ansa
Sono passate sette settimane e mezzo dall’insediamento di Donald Trump, che aveva promesso la pace in Ucraina «il primo giorno della mia presidenza», e le sorti di una tregua sono nelle mani di Vladimir Putin: che lo tiene in pugno, prende tempo e impone condizioni. Simbolicamente, il presidente russo, in nessuna fretta di interrompere le ostilità e sedersi al tavolo negoziale, rimanda di giorno in giorno la chiamata all’omologo americano, che, dopo aver sfoggiato come un successo la proposta di un cessate il fuoco elaborata con Kiev, ora nasconde l’impotenza di fronte al no di Putin dietro ingiustificate dichiarazioni di ottimismo e di fiducia nel capo del Cremlino come quella che «lunedì arriverà la risposta da Mosca».
Mentre Kiev è pronta a deporre le armi e preme su Washington, che attende mentre Putin temporeggia, i leader europei cercano di ritagliarsi un ruolo con gesti destinati a non andare lontano. Ieri è stato il turno del primo ministro inglese Keir Starmer, che ha convocato una riunione con altri 25 leader mondiali per «sostenere insieme una pace giusta e duratura» in Ucraina. Ma al di là del sottolineare l’ovvio, vale a dire che «il totale disprezzo del Cremlino per la proposta di cessate il fuoco del presidente Trump dimostra che Putin non prende sul serio la pace», la «coalizione dei Volenterosi» non è approdata a misure concrete per fare pressione su Mosca.
Il primo ministro britannico e il presidente francese Emmanuel Macron – entrambi in cerca di un successo in politica estera per arginare l’emorragia di gradimento in patria – insistono infatti di voler dissuadere la Russia dall'attaccare nuovamente Kiev in caso cessate il fuoco schierando truppe al di fuori dall’Ucraina. Nessun altro Paese europeo, però, a parte la Turchia, è disposto a mettere in campo sul confine Nato soldati, un gesto che Putin ha equivalente ad aprire un «confronto diretto» con Mosca. Nonostante il premier britannico abbia annunciato che la coalizione è pronta a passare all’azione con un incontro a livello militare giovedì «per implementare un piano robusto», le prese di distanza sono state chiare, a partire da quella di Giorgia Meloni che ha ribadito prima ancora della decisione in extremis di partecipare, che «non è prevista la partecipazione nazionale ad una eventuale forza militare sul terreno».
Il presidente del Consiglio ha confermato che l’Italia intende «continuare a lavorare con i partner europei e occidentali e con gli Stati Uniti per la definizione di garanzie di sicurezza credibili ed efficaci», ma non ha precisato quale forma queste assicurazioni potrebbero prendere. Il pressing su Mosca – tanto auspicato da Volodymyr Zelensky, che ieri ha nominato una delegazione per rappresentare Kiev in eventuali colloqui di pace con la Russia – per ora esiste dunque solo a parole. La Russia «deve dimostrare di sostenere un cessate il fuoco che porti a una pace giusta e duratura», ha detto la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. «La pressione su Putin sia chiara affinché si sieda finalmente al tavolo e fermi gli attacchi barbari all’Ucraina, perché non dà l'impressione di volere sinceramente la pace», ha aggiunto il francese Emmanuel Macron, osservando, in modo scontato, che il capo del Cremlino «vuole ottenere tutto, poi negoziare».
Secondo Downing Street invece occorre «esplorare ulteriormente il modo in cui i Paesi intendono contribuire alla coalizione», modi che, a detta di Starmer, possono prendere anche una non meglio precisata forma «economica».
Non sorprende allora la caustica osservazione del consigliere diplomatico del Cremlino, Yurij Ushakov, che «come previsto dal presidente Putin, i leader europei sotto Trump si comportano come cagnolini ai piedi del loro padrone». Sebbene sia discutibile che i capi di Stato e di governo europei prendano ordini da Trump, di certo di fronte alla tattiche dilatorie di Putin appaiono incapaci di portare a termine iniziative autonome e di mordere.
Intanto i rapporti del capo della Casa Bianca con la Chiesa americana restano tesi. Questa settimana il cardinale Robert McElroy, appena nominato arcivescovo di Washington, ha criticato esplicitamente l'Amministrazione repubblicana per una serie di politiche che ha giudicato «pericolose».
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