
Papa Francesco e il cardinale Zuppi - Vatican Media
Più di un mese di degenza del Papa al Gemelli. Un mese in cui Francesco è stato sostenuto con l’affetto e la preghiera, anche fuori dal perimetro della Chiesa. Per il cardinale Matteo Zuppi uno degli effetti di questa malattia è che sta dando «ancora più vigore e credibilità al ministero petrino di Francesco». Mentre chiede a ognuno di noi «impegno e corresponsabilità» maggiori, «come quando in famiglia si ammala uno dei genitori». Con l’arcivescovo di Bologna e presidente della Cei rileggiamo dunque i diversi aspetti del frangente che papa Bergoglio, e con lui la Chiesa e ogni uomo di buona volontà, sta affrontando.
Eminenza, in che modo la Chiesa italiana sta accompagnando il Papa nella sofferenza?
Con la preghiera, che vuol dire come sempre affetto e amore per colui che presiede nella carità e che con il suo ascolto ci ha sempre manifestato tanta vicinanza. Per questo nell’introduzione al Consiglio permanente ho ricordato una frase che mi ha mandato un vescovo con l’immagine della preghiera in cui papa Francesco da solo nel marzo di cinque anni fa pregava per il mondo. Ora sta avvenendo il contrario ed è il mondo che prega per lui.
Che cosa aggiunge dunque questa infermità ai dodici anni di pontificato di papa Bergoglio?
Aggiunge qual è la sua vera forza. E cioè continua la grande condivisione, alla quale il Papa ci ha sempre abituato, di quello che porta nel cuore. La sua umanità, le sue preoccupazioni. Con un atteggiamento che per qualcuno sembra far perdere autorevolezza, ma che in realtà ha dato più credibilità e ancora più autorità al ministero di Pietro. Oggi perciò ci fa condividere anche la sua fragilità.
C’è, secondo lei, una cifra interpretativa principale del pontificato di papa Francesco?
Francesco è il Papa del Vangelo sine glossa, del Vangelo per tutti. E quindi quella cifra potrebbe essere l’universalità. Fratelli tutti non è solo un documento, ma il vero modo con cui essere cristiani. E aggiungerei l’elemento della costruzione della comunità. Il Vangelo è comunità, casa aperta in cui il “todos, todos, todos”, che ha ripetuto con tanta insistenza a Lisbona impegna a essere abitazione e non albergo. Un luogo dove ognuno può trovare il riflesso della presenza di Dio che passa attraverso il pensarsi insieme. Una Chiesa capace di parlare con tutti, che è esattamente il contrario di dare ragione a tutti, come vorrebbe qualcuno. Invece papa Francesco ci sta aiutando a parlare al cuore e a rispondere alle domande del cuore. L’enciclica Dilexit nos è da questo punto di vista un grande riassunto del Vangelo del cuore, che risponde alle domande più vere delle persone.
Qual è stato in questi dodici anni il rapporto tra la Chiesa italiana e il suo primate?
Un rapporto diretto, franco, che si è espresso in due modi: tanti contatti e tanta conoscenza diretta, anche tramite le visite ad alcuni luoghi simbolo, e poi il dialogo assembleare con i vescovi. Per il primo aspetto penso a quando è andato sui luoghi di don Mazzolari, don Milani e don Tonino Bello. Una grande indicazione di consapevolezza e di autocoscienza della Chiesa. E penso anche al grande discorso di Firenze: l’umanesimo cristiano, Cristo come centro di tutto. È avendo Cristo negli occhi che possiamo entrare nelle pieghe della Storia. Ricordo anche l’immagine, sempre nello stesso discorso, delle mamme che allo Spedale degli Innocenti lasciavano, insieme ai neonati, delle medaglie spezzate a metà, con le quali speravano, presentando l’altra metà, di poter riconoscere i propri figli in tempi migliori. Noi abbiamo metà medaglia e l’altra metà ce l’hanno i nostri poveri, ci ha suggerito il Papa. Perché la Chiesa madre di tutti riconosce tutti i suoi figli abbandonati, oppressi, affaticati.
E il secondo aspetto?
Lo scambio assembleare con i vescovi è sempre stato caratterizzato, anche sui temi difficili, da grande parresia e grande senso di collegialità. Direi: senso del primato e della collegialità insieme.
Siamo prossimi alla seconda assemblea del cammino sinodale della Chiesa italiana, che si terrà dal 31 marzo al 4 aprile. Qual è stato il contributo di Francesco a questo cammino?
Un contributo decisivo. Sulla sua spinta la Chiesa italiana ha intrapreso il cammino sinodale. E così è nato un percorso che ha coinvolto tutta la comunità e non solo i rappresentanti. Molto fecondi sono stati i due anni in cui abbiamo ascoltato anche i nostri compagni di cammino, per ridire le ragioni per cui c’è bisogno del Vangelo. Una Chiesa davvero in uscita, che parla a tutti e che non considera l’altro come un pericolo, ma come mio fratello, il prossimo.
Che cosa si aspetta da questa prossima assemblea?
È il momento delle decisioni perché il camminare insieme trovi anche delle risposte. Tutto il cammino sinodale ha come fine non il fissare nuove regole per stare tra di noi, ma vedere come essere cristiani e comunità oggi nel nostro Paese. In sostanza una Chiesa che è tanto più se stessa, quanto più vive l’annuncio nella Babele dell’individualismo, che produce a sua volta altro individualismo. Bisogna invece ricostruire il cuore solo e l’anima sola di Pentecoste.
E proprio ieri è arrivata una lettera del cardinale Mario Grech, segretario generale del Sinodo, in cui il Papa di fatto vara un percorso di attuazione del Sinodo sulla sinodalità con tappe che vanno fino al 2028.
Ci sentiamo spronati a una sempre maggiore corresponsabilità, perché le intuizioni dei due recenti Sinodi non rimangano solo sulla carta, ma diventino vita vissuta della Chiesa a tutti i livelli. Nella Chiesa italiana, del resto, lo stiamo già sperimentando anche con il cammino sinodale che si è intrecciato con quello del Sinodo della Chiesa universale. La sinodalità completa la collegialità e il primato ed è una dimensione costitutiva che permetterà a tutti i cristiani di andare dove il Signore manda i suoi. I quali non vivono per sé ma trovano se stessi lavorando nella grande messe di questo mondo.
Ieri c’è stata una grande manifestazione a Roma per l’Europa, per la pace, contro il riarmo. Papa Francesco ha detto parole importanti da questo punto di vista nel suo Pontificato. Anche questo è un frutto di questi dodici anni?
Penso di sì, anche se purtroppo il Papa sulla pace è stato poco ascoltato. Tanti suoi appelli sono caduti nel vuoto o sono stati distorti. E tutte le volte che ha invitato a scegliere le vie del dialogo non sono diventate impegni, strategie, scelte conseguenti. Ma la sua condanna della guerra e l’indicazione del dialogo come via per comporre i conflitti resta la sola “cura” per guarire quest’altra “pandemia” della guerra stiamo vivendo. La guerra, infatti, non è mai a pezzi, ma è un virus che avvelena sempre.
Come dovremo accompagnare il Papa in questa ulteriore fase del suo pontificato segnata dalla fragilità?
Sempre con la preghiera e con l’amore. Ricordo che, quando a casa mia si è ammalata mia madre, siamo diventati tutti un po’ più responsabili. Quindi la stessa cosa deve avvenire ora che il Papa è malato. Occorre da parte di tutti noi una sempre maggiore assunzione di responsabilità. L’importanza del suo ministero risalta ancora di più e nella fragilità non perde nulla della sua efficacia, ma ci chiama a quello che lui ha sempre chiesto. Cioè di vivere la responsabilità nella comunione e non nella divisione o nell’affermazione di una parte sull’altra. Quindi un protagonismo che non sia mai divisivo, ma che aiuti la comunione.
Si è sentito di tutto in questo mese di degenza del Papa al Gemelli. Dalla richiesta di immagini, alle voci di dimissioni a un fantomatico preconclave o addirittura alle fake news sulla morte. Quale deve essere l’atteggiamento di un credente di fronte a queste distorsioni comunicative?
Siamo così poco abituati alla trasparenza che dobbiamo comunque renderla opaca. Come se ci fosse chissà cosa dietro. Il Papa ha voluto un’informazione assolutamente non adattata. Abituiamoci alla trasparenza. Il Papa non nasconde nulla. E liberiamoci da tante fake news.