Non più un tetto, non più un muro. Non una sola finestra, neppure lo scheletro di un balcone. Più niente è rimasto intatto, nulla è più alto di mezzo metro da terra. Solo rovine e pietre scheggiate, trapassate dai proiettili.Tutto della città di Aghdam è stato distrutto, raso al suolo, con la furia dei bombardamenti. Una città divorata dalla follia dell’uomo, la guerra, e dal "cancro" etnico. Pulire, spazzare via, come si fa con un cranio da tosare per impedire ai parassiti di annidarsi tra i capelli.Aghdam era la città delle pietre bianche. È morta vent’anni fa. Capitava al sorgere degli anni Novanta, quando l’Unione sovietica crollava, trascinandosi appresso errori, colpe e pogrom della storia. Repubbliche indipendenti nascevano come funghi, e più forte era la solitudine identitaria, sancita in epoca comunista quando Stalin, a suo piacimento, spostava popolazioni e muoveva confini nel Caucaso, e più la paura di restare tagliati fuori dalla propria storia andava armando piccoli eserciti di difesa popolare. Sembra di vederli i fantasmi di Aghdam, le ombre dei civili azeri e armeni si scacciavano dalle case, usando anche le forche. Una guerra, questa del Nagorno Karabakh, che ha ucciso 30 mila civili, e che ha provocato un milione di profughi, spartiti equamente tra le due parti, tra armeni e azeri.Solo la grande moschea persiana Parskakan è rimasta in piedi, rispettata: «I luoghi sacri non hanno colpe, ma l’uomo che le costruisce – commenta un soldato armeno. – Noi non abbiamo distrutto le loro moschee». Loro, gli azeri, invece «le nostre chiese cristiane le hanno profanate, distrutte».Sopravvissuti al brutale stupro della guerra sono anche i due alti minareti, intarsiati d’antico pregio, che riverberano l’ombra sui resti di questo cimitero di pietre. Dove il destino degli armeni del Karabakh si fonde nel sangue dei rivali azeri, in questa enclave di 160 mila armeni in Azerbaijan.Stepanakert è il capoluogo, con la sua bandiera di Stato, il suo primo ministro, e il governo, il suo inno nazionale e i suoi riti. Ma è uno Stato che non c’è, che non si trova segnato nelle mappe della diplomazia. Una "identità" che, in venti anni di respiro e presenza, ancora non è stata riconosciuta da nessuno. Neppure dalla confinante sorella maggiore. Quell’Armenia che tace per non compromettere l’esile filo della trattativa per risolvere il contenzioso con Baku, ma sottobanco aiuta governo e militari del Karabakh.Aghdam era la tipica città "mista", ma a maggioranza azera. Oggi nel fraseggio militare è la "linea di contatto", territorio "cuscinetto", zona di trincee e campi minati sotto controllo avanzato dell’Esercito di difesa armeno-karabakh. Una fascia di protezione, aperta e «adeguatamente protetta», ci tiene a sottolineare un tenente colonnello, ad appena una sessantina di chilometri da Stepanakert. Le due entità vivono una netta sproporzione di popolazione, soldati, ricchezza e armamenti, ma il colonnello, senza battere ciglio e in russo, aggiunge: «Abbiamo forze sufficienti per difenderci. Da qui non passa un ago». E il suo onor di patria non cede neppure quando gli facciamo presente che Baku, che galleggia sul petrolio, al primo posto della spesa nazionale ha messo la voce Difesa.Il sacro va rispettato, anche quando è parte integrante della storia del nemico scacciato a colpi di mortaio e incursioni corpo a corpo, e quei soldati della
Pashtpanutyan banak, l’Esercito di difesa armeno che ci stanno portando sulla prima linea delle trincee, dicono che «i luoghi dove si prega non hanno responsabilità».Aghdam quattro volte è passata di mano, questa che era una città di 40 mila abitanti e adesso non è più nulla. Solo un fronte di guerra sospeso nel limbo di una tregua malamente firmata nel 1994, e mai rispettata. Ogni giorno ci sono incursioni di commandos e tiri di cecchini, dell’una e dell’altra parte, che non sbagliano un colpo alla fronte del disgraziato finito nella croce di un mirino di precisione.È una mattina con i campi velati di nebbia, la
marakhugh, quando giovanissimi militari armeni ci scortano sul fronte, per andare a imbucarci a testa bassa nelle trincee di Shkhlar. Terra spoglia, fredda, dove i soldati da due decenni non vedono crescere il grano e neppure i papaveri ad annunciare la primavera. La nebbia mette paura, anche al soldato abituato a sparare al suo prossimo. Immaginate un mantello grigio che ricopre cielo e pianura. L’orizzonte impenetrabile, un muro grigio. Come un abisso che sta proprio sotto i nostri piedi e quel silenzio infinito, un’oscurità totale dove si cela la morte.Il colonnello scosta l’occhio destro dal foro nel tubo di ferro incastrato in una stretta feritoia di cemento armato, e con l’aria distratta, usando tutta la sua voce da ufficiale di prima linea, dice: «Con la nebbia, bisogna tenere alta la guardia. Oggi i cecchini riposano, ma è il momento buono per gli incursori. Il nostro avversario è laggiù, Contate duecento metri, ma con la testa bassa». L’altra notte un commando azero ha cercato di infiltrarsi, scivolando dentro a queste trincee. Tre di loro non hanno fatto in tempo a capire: una raffica di mitra e sono morti: «Neanche un lamento». Torneranno alle loro famiglie avvolti nella bandiera degli eroi. Quegli eroi che servono a far piangere un popolo e a consolidarne il potere.Sono caduti in questa palude di pantano e di gelo. Come i loro antenati che morivano nelle trincee della prima guerra mondiale. Un solo piccolo errore, come sporgersi troppo e
ta-pum. E di notte, quando ci si caccia in branda, c’è d’avere più paura: il silenzio è il miglior alleato della baionetta. Anche se fuori, sotto la pioggia, si affida la propria vita alle guardie armate con i visori agli infrarossi. E a centinaia di barattoli di latta, pezzi di ferro e chiodi che penzolano da chilometri di filo spinato, come campane squillanti al primo inciampo del nemico.Gli esperti lo chiamano «conflitto a bassa intensità»: vuol dire che si spara, ma poco. La partita a scacchi con la morte resta ben aperta e tutta ancora da vincere. Sì, forse si morirà un po’ meno sul fronte delle trincee di Shkhlar, nel Nagorno Karabakh armeno in terra azerbaijiana. Ma il conflitto è potenzialmente esplosivo, e villaggi e città in rovina come Aghdam stanno lì a ricordare che «siamo noi e le nostre montagne. Se vuoi vivere libero, devi essere capace anche di soffrire». È il congedo che ci lascia il colonnello armeno comandante della prima linea di Shkhlar.