L'arrivo dei migranti a Matamoros in Messico (Ansa)
«E' la prima cosa che diciamo loro: uscite poco e se proprio dovete farlo, procuratevi dei lacci per le scarpe», afferma una volontaria della Casa del migrante di Nuevo Laredo, che chiede di restare anonima. Le stringhe sono un oggetto indispensabile per sopravvivere alla “giungla Tamaulipas”, feudo del cartello del “Noreste”. Camminare privi di stringhe indica il recente arrivo da uno dei centri migratori Usa, dove vengono tolti per ragioni di sicurezza. Una preda ambita per i narcos del Noreste, evoluzione della sanguinaria mafia dei Los Zetas. Sono stati questi ultimi nei turbolenti 2008-2009 a creare, su vasta scala, il business dei sequestri dei migranti centroamericani che attraversavano il Messico nella rotta verso gli Usa. Negli anni successivi, “l’industria dei rapimenti” è cresciuta e si è estesa nel resto del Paese. Il Tamaulipas – dove nel 2010 è stata scoperta la fossa di San Fernando con i cadaveri di 72 irregolari –, però, è sempre rimasto il buco nero, dato il ferreo controllo del crimine organizzato sulle istituzioni. Il Dipartimento di Stato Usa sconsiglia ai propri cittadini di recarsi nello Stato, posto a un livello d’allerta al pari della Siria e dell’Iraq. E i migranti hanno imparato ad evitarlo, scegliendo la rotta ovest, più lunga di alcune migliaia di chilometri. Ora, però, non possono più farlo.
A luglio, sull’onda della mannaia dell’aumento dei dazi alle esportazioni, il governo di Andrés Manuel López Obrador ha ampliato il programma “Remain in Mexico” in base al quale gli Usa possono inviare richiedenti asilo centroamericani nel Paese confinante in attesa della decisione dei giudici sulla domanda. Alle quattro città pilota dell’ovest, se ne sono progressivamente aggiunte altre, fino a coprire quasi l’intera frontiera a cavallo delle due nazioni. Tra le nuove mete sono entrate anche Nuevo Laredo e Matamoros, principali città del Tamaulipas. Dalla metà di luglio, l’Amministrazione Trump ha spedito là 20mila – quasi un terzo –, del totale di aspiranti rifugiati “delocalizzati”, 58mila finora. Tra le braccia ansiose del cartello del “Noreste”. Il quale ha subito colto l’occasione di rimpinguare le proprie casse per rifarsi delle perdite dei recenti conflitti con le sempre più numerose fazioni dissidenti dell’organizzazione.
La “caccia al richiedente asilo” è l’affare del momento. In centinaia sono stati sequestrati per estorcere denaro ai familiari dall’altra parte del confine. I riscatti non sono altissimi, dati gli scarsi mezzi delle vittime: dai mille ai 5mila dollari. Chi non può pagare viene rivenduto nei mercati del sesso a pagamento, gli organi, reclutamento forzato. A Yohan ne hanno chiesto tremila per essere rilasciato. Il fratello, che lavora ad Atlanta, si è indebitato per mettere insieme la cifra. Prima di liberarlo, i sequestratori hanno dato al giovane una “parola d’ordine”. «Se ti fermassero altri, dì loro: “Sono già passato in banca”». Appena dodici ore dopo, Yohan ha dovuto ripetere la frase a due uomini che volevano rapirlo di nuovo. Impossibile sapere il numero esatto dei catturati. Il Tamaulipas è una “zona de silencio”: la stampa ha l’ordine di riportare notizie sulla criminalità organizzata. Denunciare è impossibile. «Tutti conosciamo casi di richiedenti asilo sequestrati: i narcos si stanno arricchendo. Ma non sappiamo a chi rivolgerci. Nessuna autorità riceverebbe la denuncia», afferma Juan Sierra, del rifugio San Juan Diego di Matamoros. L’Istituto per le donne migranti ha raccolto, in via informale, 205 casi tra il 15 luglio e il 15 ottobre, Human rights first ne ha trovati 2012. Cifre minime rispetto all’estensione del fenomeno. Anche così, però, significa che ogni giorno, almeno due richiedenti asilo vengono catturati. L’avvocato Rebecca Gendelman di Human rights first racconta che la corte di Laredo, in Texas, s’è svuotata nelle ultime settimane.
Là devono presentarsi i richiedenti asilo, in attesa dall’altra parte del confine, per ottenere lo status di rifugiati. «Su 31 udienze fissate un giorno di due settimane fa, si sono presentati in quattro. La volta dopo, sono arrivati in 15 su 63. Gli altri non hanno potuto farlo: erano in ostaggio o avevano terrore di diventarlo dato che la maggior parte dei rapimenti avviene al ritorno a Nuevo Laredo, poco dopo aver superato il ponte internazionale», racconta il legale. E aggiunge: «Ho visto tantissime persone piangere, supplicare il giudice di non rimandarle in Messico. Una mamma con un bimbo di due anni ha detto che preferiva essere espulsa piuttosto di ritornare. Così è avvenuto». Non sono solo gli attivisti a protestare.
Doug Stephens, funzionario Usa addetto alle domande d’asilo, ha rassegnato le dimissioni tre giorni fa in polemica con il programma “Remain in Mexico”. In una video intervista, Stephens ha spiegato di mettere a rischio la vita e l’incolumità dei profughi.