
Bimbi di fronte al murale di Touissant Loverture, protagonista della rivoluzione haitiana, a Breda, ex piantagione dove fu schiavo
«Abbiamo rappresentato una sfida, fin dal principio. Abbiamo combattuto contro un ordine internazionale dominato dai colonialisti bianchi. L’anomalia è che abbiamo vinto. Per questo ce l’hanno fatta pagare». Jean Raymond siede sulla soglia della “stanza della memoria”. Quattro pareti di intonaco grezzo dipinte di verde coperte da un tetto di lamiera. Sul pavimento di terriccio, una statua di gesso ritrae un uomo nell’atto di soffiare dentro un “lambi”, la conchiglia tipica dei Caraibi. La schiena è incurvata all’indietro, dal braccio penzola una catena spezzata. È François Mackandal, l’emblema della Rivoluzione haitiana. La prima rivolta vittoriosa di schiavi che conquistò nel 1804, con decenni d’anticipo rispetto al resto dell’America, libertà e indipendenza. Quel 14 agosto di tredici anni prima, quando tutto ebbe inizio, “Mackandal, il ribelle”, era stato già trucidato dai “gran blanc”, i grandi proprietari francesi di terre ed esseri umani. Il popolo haitiano lo considera, però, l’ispiratore dei “fatti di Bois-Caiman”, ancor più dei leader che guidarono effettivamente l’insurrezione: Toissaint Loverture e Jean-Jacques Dessalines.
«Senza il suo esempio non sarebbero riusciti a vincere il terrore dei padroni. Si riunirono in segreto qui, proprio in questo punto. All’epoca era una radura infestata di caimani, come dice il nome. Vennero in duecento, dalle diverse piantagioni intorno e dalla vicina Cap-Haitien, allora capitale. Giurarono, durante una cerimonia vudù, di mettere fine alla schiavitù», prosegue Raymond, sacerdote della religione praticata come forma di resistenza dagli africani e tuttora la più diffusa nel Paese. È il responsabile di Lakou Bwakayman, la casa-tempio costruita nel 2001 sull’epicentro da cui si propagò l’onda rivoluzionaria. Una struttura precaria. Come qualunque cosa nella nazione più povera d’Occidente. Lo scorso ottobre l’Unesco ha accettato di includerla nella lista dei siti di rilevanza mondiale. Niente, però, è cambiato.
Buche trasformate in paludi urbane lacerano il sottile strato di asfalto sulla strada che, dal centro di Cap Haitien, conduce a Bois-Caiman. Sul lungomare, i rifiuti torreggiano in cumuli bruciacchiati: perfino l’oceano mostra una sfumatura grigiastra. Quando, all’uscita della città, spunta la lastra di marmo candido in ricordo dell’ultimo atto indipendentista, la battaglia di Verrières, sembra un’illusione ottica. Almeno, la capitale storica non è nelle mani delle gang che divorano Port-au-Prince un brandello alla volta. A strangolare la vita qui come nel resto del nord e nelle regioni rurali, più della violenza, è la “mizè”, la miseria. Difficile scorgere nello sfacelo attuale tracce dell’Haiti eroica, capace di strapparsi di dosso il giogo del dominio schiavista e coloniale. Il Paese che accese l’immaginazione di Simón Bolívar, padre dell’indipendenza latinoamericana, e infuse speranza negli abolizionisti europei e statunitensi, ha i tassi più bassi di sviluppo.
Corruzione, malgoverno e fragilità istituzionale sono le spiegazioni più in voga. E colgono, senza dubbio, aspetti importanti della realtà. C’è, però, una parte “silenziata” della storia che, tuttora, secondo la Foundation for the remambrance of slavery, non è inclusa nei libri di testo francesi. Ancor meno altrove. «Il paradosso haitiano risiede proprio nell’eccezionalità del suo caso. La ribellione vittoriosa mise in discussione un sistema basato su schiavitù e colonialismo. Questo è il grande dono dell’isola all’umanità. Il mondo ha un debito morale nei suoi confronti. E, invece, è stata l’isola a dover pagare per aver dato il “cattivo esempio”. Le potenze dominanti la punirono con il “doppio debito” dell’indipendenza», spiega Jacky Lumarque, rettore della Quisqueya, l’unica università di Port-au-Prince dove le lezioni si tengono ancora in presenza nonostante la guerra delle bande. Giovedì saranno trascorsi duecento anni esatti dal 17 aprile 1825 quando Parigi costrinse gli ex schiavi, che avevano decimato le armate napoleoniche, a indennizzarla con 150 milioni di franchi. In caso contrario, l’isola sarebbe stata invasa di nuovo: undici navi francesi, al largo, avevano già i cannoni puntati.
Un ricatto in piena regola, consumato grazie alla complicità della comunità internazionale, terrorizzata dal successo della prima Repubblica nera della storia. Haiti, così, ha avuto anche il primato, fra le nazioni del Sud globale, di precipitare nella spirale dell’indebitamento. Nonché di essere l’unica vincitrice a “riparare” gli sconfitti con una cifra affatto simbolica: l’equivalente di 560 milioni di dollari attuali. «Includeva le “proprietà” perdute dai “grand blancs” – prosegue Lumarque –: le terre e soprattutto gli esseri umani obbligati con la frusta a lavorarle». Erano stati questi ultimi – di cui l’isola assorbiva il 37 per cento del traffico mondiale – a rendere Haiti la colonia più ricca di Francia. Avrebbero continuato a contribuire, in modo diverso. “Meta-schiavitù”, l’ha definita lo storico francese Jean-Francois Briére.
Haiti, appena uscita dalla guerra, non aveva i soldi per far fronte al debito. «Re Carlo X offrì la soluzione all’allora presidente Jean-Pierre Boyer. Glieli avrebbe prestati un gruppo di banche. Francesi naturalmente. Haiti, così, ha pagato due volte Parigi», aggiunge il rettore, tra i più acuti analisti politici del Paese. Tra tassi di interesse, commissioni e connivenze di funzionai corrotti, il passivo lievitò: ci vollero 132 anni per ripianarlo. Di questi, 57 anni per saldare i conti con gli ex schiavisti. E il resto per rimettere i prestiti aggiuntivi contratti per sopravvivere. Il più sostanzioso, nel 1875, beneficiò, in particolare, con profitti agli investitori a volte maggiori della spesa pubblica haitiana, il Crédit industriel et commercial, l’istituto che finanziò la costruzione della Tour Eiffel. E che, dal 1880, avrebbe controllato le finanze attraverso la Banca nazionale haitiana. Quando, nel primo dopoguerra, l’influenza di Washington sostituì quella di Parigi, la banca passò sotto il controllo degli affaristi di Wall Street, a partire dalla National city bank. Il costo reale del “doppio debito” va, dunque, ben oltre le somme effettivamente versate. Il “prezzo della libertà” pagato alla Francia ha sottratto ad Haiti il 19 per cento delle riserve disponibili ogni anno per oltre un secolo, impedendo di investire nelle infrastrutture essenziali.
Nel 2022, uno straordinario lavoro di inchiesta del New York Times ha calcolato il valore reale in termini di mancato sviluppo, spulciando oltre un secolo di documenti originali sui pagamenti. L’ammontare, condiviso da un team di 15 storici ed economisti, oltrepassa i 21 miliardi di dollari. La stessa cifra rivendicata, nel 2004, da Jean Bertrand Aristide, il primo leader haitiano a sollevare la questione alla Francia che la definì «un’esagerazione demagogica». In realtà, si tratta di una stima al ribasso. In rapporto ai parametri di crescita delle altre economie regionali, le riparazioni sarebbero costate 115 miliardi di dollari: otto volte il Pil haitiano nel 2020.
Scavata nella montagna di Canal, la Grot Bris si cela a meno di un chilometro dalla radura di Bois-Caiman. Vi si rifugiavano gli schiavi ribelli, incluso Mackandal. Sulla roccia, sono dipinti i colori della bandiera nazionale. «È il cuore della nostra storia – dice Lamedi, figlio 17enne di Reynold, mentre si arrampica facendosi largo fra gli arbusti –. Pochi, però, la conoscono, non si riesce nemmeno ad arrivarci. Sarebbe bello farci un parco. Ma mi accontenterei di una strada».