domenica 13 aprile 2025
Un'infinità di contenziosi, zero soluzioni. O il pallottoliere a Washington è diverso da quello della sponda europea dell’Atlantico, oppure la matematica nel Giardino delle Rose è un’opinione
Il presidente Trump annuncia i dazi nel Giardino delle Rose della Casa Bianca il 2 aprile

Il presidente Trump annuncia i dazi nel Giardino delle Rose della Casa Bianca il 2 aprile - Ansa

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«What a mess!», liberamente tradotto – poiché il turpiloquio di Donald Trump non si confà a questo giornale – con: “che confusione!”. Il concetto però rimane. Due le possibilità: o il pallottoliere a Washington (o a New York o a Mar-a-Lago) è diverso da quello della sponda europea dell’Atlantico, oppure la matematica nel Giardino delle Rose della Casa Bianca è davvero un’opinione.

Un’opinione tuttavia intensamente sostenuta da figure di primo piano come Peter Navarro, economista con laurea a Harvard e cattedra alla University of California e soprattutto consigliere economico di The Donald. Ebbene, giusto un paio di giorni fa l’ineffabile Navarro dava i numeri: nel senso che annunciava che dopo lo schiaffo del Liberation Day e il conseguente “panic selling” e il crollo dei mercati. «il presidente ha intenzione di realizzare novanta accordi in novanta giorni», utilizzando la pausa di tre mesi annunciata da Trump dopo che lo sconquasso delle Borse mondiali gli aveva suggerito di fare un passo indietro. Peccato che i Paesi con cui fare accordi sono 75, Cina esclusa. E qui il pallottoliere già dà i numeri. E non solo lui: anche mezzo Congresso strabuzza gli occhi: «Come si fa a fare praticamente un accordo al giorno con una moltitudine di Paesi uno diverso dall’altro per tradizioni, economie e regole tariffarie?», dice la vox populi, intesa come quella dei congressmen.

«Gli americani – incitava Navarro in un intervento su “Fox Business” – dovrebbero fidarsi di Trump, i mercati dovrebbero fidarsi di Trump e non farsi prendere dal panico».

Ma l’America, i mercati, noi europei, possiamo fidarci di Navarro? Certamente non si fida Elon Musk, che gli ha dato pubblicamente del babbeo. Ma un rivoletto di scetticismo serpeggia anche dalle parti della Oval Room, visto che il grande ispiratore della politica anti-cinese di Navarro – la stessa che Trump ha fatto sua con entusiasmo – è un certo Ron Vara, fantomatico economista che – si è scoperto poi – non era altro che un eteronimo di Navarro stesso. Un po’ come amava fare lo scrittore portoghese Fernando Pessoa. Con la differenza che qui stiamo parlando di un economista autore di un pamphlet molto celebrato dal titolo Death by China (Morte per mano della Cina), che convalida le sue teorie con un guru dell’economia che non è mai esistito.

Mentre il pallottoliere impazzisce, anche il tavolo del risiko sussulta: in soli tre mesi mesi Donald Trump ha aperto un’infinità di tavoli di crisi – Israele, Gaza, Siria, Iraq, Iran, Yemen, Taiwan e soprattutto il conflitto Russia-Ucraina – senza ancora averne risolto neanche uno. Un po’ poco per chi prometteva di sciogliere il nodo inestricabile fra Mosca e Kiev in ventiquattr’ore. La tregua infatti ancora non c’è, le bombe e i droni continuano a scorrazzare nei cieli ucraini, la lenta manovra avvolgente dell’armata russa (rossa non si può più dire) si mangia ogni giorno piccole e medie porzioni di territorio. Perfino Netanyahu è tornato a Tel Aviv con niente in mano, se non un friendly warning, un amichevole (amichevole?) avviso: «Concludi al più presto questa guerra a Gaza», mentre Trump annunciava la riapertura di colloqui di ieri con Teheran sul nucleare.

Una cosa gli va riconosciuta: pochi al mondo, forse nessuno come The Donald, sono riusciti a scompaginare il mosaico delle relazioni internazionali con tale impegno. Resta da vedere se il tycoon che siede alla Casa Bianca sia fino in fondo consapevole delle conseguenze che la sua politica barricadera può comportare. E ora anche il 51 per cento degli americani comincia a dubitarne.


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