In «Retrato de Teresa», film cubano del ’79, la protagonista, Teresa appunto, è costretta a tenere tutto il peso del suo piccolo universo sulle sue spalle. Ma quando capisce che il mondo maschile non la rispetta, non ha dubbi nel lasciare tutto pur di mantenere indipendenza e rispetto di se stessa. Quarant’anni più tardi, a un’altra latitudine, anche Theresa May ha deciso ieri che era abbastanza. «Su, diglielo Phil», titolavano con un velato maschilismo ancora in mattinata i tabloid britannici rivolti al marito, quasi che lei, Theresa appunto, da sola non ci arrivasse. Determinata, spesso cocciuta, May è stata la premier della Brexit irrealizzata, quella che, errore dopo errore (fatale l’apertura al referendum-bis), ha provato ad accontentare tutti non accontentando alla fine nessuno. E che per questo si è trovata i nemici in casa, riducendosi ad un’ineluttabile solitudine che l’ha portata, infine, alle dimissioni. Dopo aver votato giovedì per le elezioni europee, May ha incontrato ieri mattina Graham Brady, il leader del comitato 1922, il braccio organizzativo del partito conservatore, che come previsto le ha “certificato” la rivolta interna del suo gabinetto. Poco dopo, la premier è uscita dal 10 di Downing Street annunciando che lascerà il 7 giugno la leadership del partito (prima c’è la visita di Donald Trump), dando così il via, tre giorni dopo, alla sfida per la nomina di un successore che porti all’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, prevista per il 31 ottobre.
In pole Boris Johnson
In pole l’euroscettico Boris Johnson, che non ha mai nascosto il suo favore per una Brexit senza accordo (che il Parlamento non potrebbe bloccare). Entro il 24 luglio si saprà se toccherà a lui guidare il Regno Unito. Con voce rotta dall’emozione (e alla fine scenderà anche qualche lacrima), May, che resterà premier per gli affari correnti, ha detto di non avere risentimento, ma enorme gratitudine «per avere avuto l’opportunità di servire il Paese che amo. Lascerò presto un lavoro che è stato l’onore della mia vita svolgere». Ha ricordato di aver provato «tre volte» a convincere i parlamentari ad approvare il suo accordo con l’Ue: «Purtroppo non ci sono riuscita », l’amara ammissione, un «profondo rammarico» il non aver realizzato la Brexit. Ha rivendicato i suoi provvedimenti interni («stiamo mettendo fine all’austerità»), ma soprattutto, tornando sulla Brexit, ha esortato il suo successore a «trovare il consenso in Parlamento, laddove io non l’ho trovato ». Quindi, l’elogio del «compromesso» che «non è una parola sporca, la vita dipende dal compromesso». Ma in un Paese profondamente diviso e polarizzato sul tema Brexit e non solo, l’appello rischia di restare lettera morta. E domenica sera, quando saranno noti i risultati delle Europee, la prevedibile batosta subita dai conservatori (ma anche dal Labour) per mano del Brexit party di Nigel Farage potrebbe accelerare il voto anticipato.
Un Paese diviso
«Difficile non essere dispiaciuti per la signora May, ma politicamente aveva compreso l’umore del Paese e del suo partito », ha twittato ieri Farage. Corbyn, nell’invocare nuove elezioni, ha detto che May «ha fatto bene a dimettersi, ha accettato quello che il Paese sapeva: che non può governare e neanche (guidare) il suo partito diviso e disintegrato». Mentre Boris Johnson, tra coloro che più hanno aizzato i Brexiteer, ha infine ringraziato May «per il suo stoico servizio»: «Adesso – ha proseguito – è il momento di seguire le sue sollecitazioni: mettiamoci insieme e attuiamo la Brexit». La corsa alla leadership ha due fasi: nella prima, i 313 deputati conservatori scremano i diversi candidati fino ad arrivare a due nomi. Nella seconda fase, 120mila membri del partito (in media più ricchi, più anziani e più bianchi del cittadino medio) eleggono il vincitore tra i due finalisti. Oltre a Johnson, gli altri nomi di peso dovrebbero essere Dominic Raab, Jeremy Hunt, Andrea Leadsom, Penny Mordaunt. Forse è a queste ultime due che May si è riferita ieri sottolineando di essere stata, dopo Margaret Thatcher, «il secondo primo ministro donna, certo non l’ultimo». Perché nelle stanze avvelenate di Westminster, Brexit o non Brexit, un’altra Theresa prima o poi torni a comandare.
«Il suo principale errore»
«Gli errori principali di Theresa? Il non aver saputo spiegare i benefici del suo piano sulla Brexit all’opinione pubblica. E poi, ovviamente, il non essere riuscita a portare dalla sua parte fazioni diverse del partito che potessero sostenere il suo accordo con l’Ue». Appena trentenne, Will Tanner è stato vice capo della squadra di consiglieri politici di Theresa May a Downing Street. A capo oggi del think tak conservatore Onward, Tanner sottolinea ad Avvenire che la sfida per la successione di May, che vede favorito l’euroscettico Boris Johnson, non è scontata. «Non credo che certe persone vinceranno sicuramente quella gara, sono sfide difficili da pronosticare – sottolinea –. La gente tende a scegliere candidati che possano andare oltre gli stessi membri del partito. Sarei sorpreso se alla fine venisse scelto qualcuno con una piattaforma molto limitata, sospetto che vincerà chi potrà raggiungere gruppi diversi. Non so se Boris sia il miglior candidato per fare questo». Secondo Tanner «non è corretto sostenere che May abbia pensato alla Brexit solo come ad un progetto di limitazione dei danni: ha sempre e solo difeso la volontà della gente di lasciare l’Ue, perché credeva fermamente nel suo dovere pubblico e nel dovere dei politici di concretizzare la volontà popolare». «La decisione presa ieri da Theresa – continua il suo ex consigliere – è la naturale conseguenza del suo fallimento nell’ottenere una maggioranza nel 2017, che ha portato a una battaglia per tenere unito il suo partito sulla Brexit. La sua speranza ora è che la sua eredità interna, l’aver provato a far focalizzare i conservatori su alcune delle ingiustizie storiche della società britannica, non andrà persa nella sfida per trovare un suo successore». Infine, un pensiero sulla May “privata”: «Posso solo dire che l’idea che lei sia fuori dalla realtà delle persone comuni è completamente sbagliata. La sua politica è indirizzata dalla gente, più che da punti di vista politici. E credo che questo sia ciò che la distingue da gran parte dei suoi colleghi».