Wang Yi - Ansa
Con una mossa a sorpresa, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi è atterrato oggi a Kabul per colloqui con la dirigenza taleban. Una visita che l’agenzia di stampa ufficiale afghana Bakhtar ha confermato servirà a “discutere di varie questini tra cui il miglioramento dei rapporti politici, economici e di transito frontaliero”, accolta con non pochi malumori dalla diplomazia internazionale che ieri aveva visto nel giro di poche ore svanire la speranza di un ritorno a scuola delle giovani afghane. Molte che si erano presentate ai cancelli per la riapertura post-conflitto, sono state respinte in quando un nuovo comunicato ha indicato che il diritto allo studio sarà permesso soltanto fino al sesto grado scolastico, quindi fino al completamento della scuola primaria.
Non a caso Wang è il primo esponente governativo di un Paese “di peso” ad arrivare a Kabul e se il regime islamista ha ogni necessità e volontà di un riconoscimento internazionale, oltre che di investimenti che ne sostengano l’economia scesa alla soglia della sussistenza, Pechino da parte sua ha interessi strategici (ad esempio per contrastare l’influenza indiana determinante fino allo scorso anno nella ricostruzione del Paese), economici, di scambi e investimenti. Anche sulle risorse, però, in particolare quelle minerarie. Un altro elemento determinante è che il regime taleban si impegnerebbe a non dare rifugio ai gruppi attivi all’estero per rivendicare l’identità uighura e musulmana dello Xinjiang, immensa provincia occidentale cinese che Pechino cerca di integrare con una politica repressiva che per molti equivale a un genocidio.
La mossa cinese, che come altre nelle ultime settimane si situa nella situazione di incertezza aperta dall’invasione russa dell’Ucraina, da un lato sviluppa le abituali tattiche di associazione con chiunque accetti investimenti, export, intervento nelle infrastrutture e supporto nelle sedi internazionali di Pechino in cambio di controllo delle risorse e condivisione delle scelte strategiche. Un gioco facile e scoperto in Afghanistan, dove i tentativi di conquista degli imperi russo e britannico, prima, dei sovietici poi, come il ventennio di presenza straniera a guida statunitense terminato lo scorso agosto hanno mostrato l’insofferenza degli afghani (pur con distinzioni in base alla loro appartenenza etnica e varia affiliazione islamica) nei confronti di qualunque dominazione esterna sul territorio. l ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha detto che «la miniera di rame di Mes Aynak sarà presto avviata da una società cinese»: lo ha afferma su Twitter Ahmad Yasir, un funzionario del governo taleban. Tra i temi della visita a sorpresa di Wang a Kabul, secondo indiscrezioni di stampa, anche quello sulla ripresa dell'estrazione del rame a Mes Aynak, nella regione di Logar. Secondo l'agenzia Tolo, a inizio mese il governo talebano aveva chiesto a China Metallurgical Group Corp (Mcc Group) di portare avanti il progetto bloccato per anni basato sul pagamento di 400 milioni di dollari annui per una concessione di 30 anni.
Una più stretta collaborazione tra i militanti islamici e la dirigenza cinese era già stata annunciata a luglio 2021, a poche settimane dalla drammatica uscita di scena americana da Kabul, durante la visita di una delegazione taleban guidata dal loro leader Abdul Ghani Baradar alla città di Tianjin, e la “mano tesa” di Pechino verso Kabul, come la tradizionale cooperazione con il Pakistan hanno favorito l’accoglienza positiva che Wang Yi ha avuto nei giorni scorsi nel vertice dei ministri degli Esteri dell’Organizzazione della Cooperazione islamica che si è tenuto nella capitale pachistana Islamabad il 22 e 23.
Finora la Cina, non ha riconosciuto apertamente il regime taleban ma ha evitato ogni critica nei suoi confronti. Forse cercando quello spazio di intervento o giustificazione a un intervento più diretto che gli è stato concesso una settimana fa dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza che ha rinnovato la missione dell’Onu in Afghanistan (Unama) con la sola astensione della Russia, vero partner cinese e forza di blocco con Pechino in Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite. Per molti, un riconoscimento di fatto del regime islamista che oggi ha in pugno il Paese, pur senza nominarlo