martedì 18 ottobre 2016
Curdi, sunniti e sciiti in campo contro il Daesh per la riconquista della città. Ma un piano politico non c'è. E si rischia il caos. (Camille Eid)
Mosul, la battaglia che ridisegnerà l'Iraq
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Tutto sembra procedere secondo i piani. Ma la vera battaglia di Mosul inizierà dopo. Dopo la cacciata del Daesh. La città catalizza la bramosia di diversi attori locali e regionali, e il suo futuro deteminerà non solo la geografia politica dell’Iraq, ma anche dell’intero Medio Oriente.L’offensiva è iniziata. L’agenda è stata concordata sotto la supervisione americana: dalle forze che prendono parte all’operazione, alla direzione di marcia delle varie unità militari, alla data prevista della fine delle azioni (si parla di tre settimane). Ma niente, proprio niente sul “dopo” sembra essere chiaro. A cominciare dal governo della città. Il presidente della Regione autonoma curda, Massud Barzani, ha parlato di un «dettagliato» accordo con Baghdad che contempla l’istituzione di una “Commissione politica comune” cui sarà affidata l’amministrazione di Mosul dopo la liberazione. E già qui cominciano i problemi. Perché altre fonti curde hanno tenuto a sottolineare che i peshmerga avanzeranno solo fino alla periferia della città ma non vi entreranno affatto. Quindi non si capisce perché mai gli iracheni dovrebbero offrire loro su un piatto d’argento il governo condiviso di una città che non hanno contribuito a conquistare. Lo stesso dicasi per i miliziani sciiti della “Mobilitazione popolare”, cui è stata affidata la liberazione di Hawija e la “pulizia” del settore di Tal Afar, a est di Mosul, per tagliare le vie di fuga dei jihadisti verso il confine siriano.La partecipazione all’operazione di queste milizie sciite aveva sollevato ondate di critiche da vari Paesi. Nei giorni scorsi il ministro degli Esteri saudita Adel al-Jubayr aveva ripetutamente invitato Baghdad a escludere dall’operazione «le milizie confessionali sostenute dall’Iran», mettendo in guardia da una «catastrofe» o da «un bagno di sangue» contro la popolazione sunnita. Così, mentre il premier iracheno Abadi si rallegra del fatto che per la prima volta da 25 anni le truppe federali irachene entrano nel Kurdistan, i massi media vicini a Riad soffiano sul fuoco della reciproca diffidenza. La tivù al-Arabiya ha parlato della battaglia di Mosul come di un «surreale momento di concordia», rilevando che, a missione terminata, le forze in campo cominceranno a imbrogliarsi a vicenda».La Turchia, da parte sua, non si rassegna alla sua (provvisoria) esclusione dall’operazione. Ankara considera, infatti, il coinvolgimento dei suoi soldati alla battaglia di Mosul una conditio sine qua non per sedere successivamente al tavolo dei negoziati. Per ora, lo strumento di Ankara è rappresentato dalla cosiddetta “Guardia di Ninive”, guidata dall’ex governatore della provincia Athil al-Nujaifi. Ma si tratta di un’“arma” provvisoria. «I nostri fratelli sono lì e i nostri parenti sono lì. È fuori questione che noi non saremo coinvolti», ha detto il presidente  turco Erdogan parlando in televisione. I «fratelli» che Erdogan vuole proteggere dall’espansionismo sciita filo-iraniano sono – come aveva avuto modo di illustrare – gli arabi, i turkmeni e i curdi. Una determinazione che rispolvera vecchi progetti regionali.La provincia ottomana di Mosul era stata inglobata, in base agli accordi segreti di Sykes-Picot del 1916, nella zona sotto influenza francese, ma le successive vittorie militari di Kemal Ataturk avevano messo in discussione tale decisione. Fino al 1923, quando il Trattato di Losanna ha stabilito che la sorte della provincia sarebbe stata decisa dalla Società della Nazioni e, due anni dopo, Mosul è entrata ufficialmente a fare parte dell’allora Regno hascemita dell’Iraq. Tuttavia, le rivendicazioni di Ankara sulla città non si sopirono mai. Fino a qui.
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