Un governo di unità nazionale fragile e indebolito nonostante il riconoscimento ufficiale dell’Onu; un Paese profondamente diviso, lacerato da odii tribali e dalla concorrenza armata di ogni tipo di milizie: un militare autoproclamatosi maresciallo come Khalifa Haftar, che in Cirenaica è diventato il dominus mentre nel sud, quel Fezzan da lungo tempo crocevia di traffici e interessi oscuri senza controllo, la mano guantata del suo esercito si appropria (ufficialmente per dare la caccia ai jihadisti e «purgare la regione dai terroristi e dai criminali») di aree strategicamente importanti, ma soprattutto ricche di petrolio.
Come quella di Sharara, 900 chilometri a sud di Tripoli, un giacimento controllato dallo Stato e gestito da una jointventure fra la Libyan National Oil Corporation (Noc), la spagnola Repsol, la francese Total, l’austriaca Omv e la norvegese Statoil che assicura 300mila barili al giorno. Sommati ai terminali nel Golfo della Sirte già sotto il controllo di Haftar fanno dell’anziano generale, un tempo al soldo di Gheddafi, il padrone virtuale del petrolio e quindi della Libia. Gli manca soltanto – la simmetria con l’assedio della ridotta del Daesh in Siria fa quasi paura – di completare l’accerchiamento di Tripoli e la resa delle milizie ancora fedeli al premier al-Sarraj.
A otto anni dai moti del 17 febbraio che segnarono l’inizio di quella Primavera araba destinata a rovesciare il pluriquarantennale regime della Jamahiriya, la carta geopolitica dell’ex “scatolone di sabbia” (l’epiteto lo si deve al deputato socialista Gaetano Salvemini, contrario alla guerra contro i turchi che assicurò all’Italia la Quarta sponda nel 1911) è un mosaico di sconfortante disordine. «Al caos politico e civile – spiega Khaled Nassur, ufficiale salafita passato alle milizie Zintan all’indomani della morte di Gheddafi – avevamo fatto l’abitudine. Ora però la guerra si è spostata sul fronte che più fa gola, non solo ai due governi, quello ufficiale e quello della Cirenaica, ma a tutte le compagnie straniere. Compresi voi italiani». Inutile girare intorno al problema, la Libia vive quasi esclusivamente dei proventi del petrolio: il 90 delle entrate sono dovute al greggio e agli idrocarburi le cui riserve sono le più vaste dell’Africa e si piazzano fra le prime dieci del mondo, tanto che con i suoi 63 miliardi di barili di greggio e i 15 miliardi gas naturale la Libia potrebbe restare sul mercato per oltre cento anni. Una rendita di posizione che teoricamente in grado di garantire un benessere diffuso, che in parte esisteva, soprattutto nella capitale, ai tempi del colonnello Gheddafi. La Noc insieme alla Banca centrale è l’unica realtà che funziona davvero nel Paese: è il suo tesoriere, e di fatto la cassaforte che consente di pagare gli stipendi alla moltitudine di dipendenti pubblici (l’ossatura di quella piccola borghesia che già esisteva e veniva incoraggiata negli anni del regime) e alle milizie che assicurano l’ordine a Tripoli, a Misurata e in quello spicchio di Libia rimasto sotto il controllo reale del governo di unità nazionale.
Haftar, il “Petit Napoléon” della Libia, ha molti amici influenti: la Francia, che lo ha ospitato e curato la sua débâcle cardiaca, l’Egitto, gli Emirati, la Russia. Memorabile, nella sua pacchiana messinscena, la teatrale passerella del maresciallo a bordo della portaerei Ammiraglio Kuznetsov al largo della Cirenaica, dove ha firmato a nome del governo di Tobruk non ben definiti accordi di ospitalità e assistenza per il naviglio russo. Giusto prima che deflagrasse la rivoluzione del 2011 l’onnipotente Gazprom aveva firmato con Tripoli contratti di esplorazione e produzione di idrocarburi nonché un’intesa per costruire la linea ferroviaria Bengasi- Sirte e il tratto Tripoli-Tobruk: una commessa da 10 miliardi di dollari, al momento congelati. Gli interessi veri sono questi. L’Italia, che pure aveva organizzato l’utile Conferenza di Palermo, rimane in bilico per assenza di interlocutori: parla con entrambi i galli del pollaio e attende che l’inviato speciale dell’Onu per la Libia Ghassan Salamé riesca ad organizzare quella Conferenza nazionale per ricostruire «uno Stato civile libico unito». Lodevole proposito, ma la data prevista è già slittata. Ora ci riprova. Sempre che il maresciallo sia d’accordo.
HAFTAR Ecco chi è l'uomo forte «americano»
Il tenente generate Khalifa Haftar, 75 anni, proveniente dai ranghi dell’accademia militare di Bengasi, si è formato nell’allora Unione sovietica e ha partecipato al colpo di Stato del 1969 che portò al potere Muammar Gheddafi. Successivamente, accusato da Gheddafi di infedeltà, si avvicina agli Stati Uniti. Negli Usa si unisce ai ranghi della diaspora libica, mentre sono in molti, a partire da Gheddafi, ad accusarlo di essere un agente della Cia. Cittadino americano, dopo vent’anni di esilio, rientra a Bengasi nel marzo 2011, poco dopo lo scoppio della rivolta contro il Colonnello, e viene nominato capo delle forze di terra dal Consiglio nazionale di transizione. Poi la sua carriera è segnata da offensive e ritiri del suo esercito e l’ascesa politica ai danni del premier al-Sarraj.