sabato 12 aprile 2025
Nel 1975 i libanesi erano divisi sulla questione dei palestinesi armati, oggi lo sono sul ruolo militare di Hezbollah. Esposta in un museo la carcassa del pulmino da cui tutto cominciò
Il pulmino di Ain el-Remmaneh, ridotto a una carcassa, è da oggi esposto al museo Nabo, nel nord del Paese

Il pulmino di Ain el-Remmaneh, ridotto a una carcassa, è da oggi esposto al museo Nabo, nel nord del Paese

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Alle 12 in punto di domenica, tutto il Libano si ferma per osservare un minuto di silenzio. Un gesto simbolico voluto dal primo ministro Nawaf Salam per ricordare la scintilla d’avvio, quel 13 aprile di cinquanta anni fa, di quella che viene comunemente chiamata “la guerra civile libanese”. Quella domenica, un autobus che trasportava una trentina di attivisti palestinesi è stato preso di mira nel quartiere cristiano di Ain el-Remmaneh dove, poche ore prima, era avvenuto un tentato assassinio del capo delle Falangi, Pierre Gemayel. Inizia così la spirale di un conflitto destinato a durare ben 15 anni, fino al 1990. In verità, quella lunga guerra ha contenuto tante mini guerre di tutti contro tutti: la “guerra dei due anni” (1975-76), l'intervento siriano contro la sinistra libanese, la guerra dei 100 giorni tra militari siriani e milizie cristiane (1978), l'invasione israeliana del 1978 poi del 1982 con gli atroci massacri di Sabra e Chatila e l'arrivo della Forza multinazionale, la “guerra della montagna” tra drusi e cristiani (1983), la “guerra dei campi” tra il movimento sciita Amal e i palestinesi, la “guerra di liberazione” lanciata dal generale Michel Aoun contro le truppe siriane e infine la guerra intercristiana tra i militari di Aoun e le Forze libanesi al comando di Samir Geagea.

L'intellettuale Samir Frangieh ha tentato una definizione di quel cocktail bellico. «La nostra – ha detto – non è stata una guerra d’indipendenza o una guerra identitaria, o una guerra etnica, o una guerra comunitaria. È difficile classificarla perché è stata una guerra che comprende tutte queste guerre». “Il pulmino di Ain el-Remmaneh”, ridotto ormai a una carcassa, è da oggi esposto al museo Nabo, nel nord del Paese. «A mo' di ammonimento e per favorire una purificazione della memoria in vista di una vera riconciliazione», spiega la direzione del museo. Tinzikir ma tinaad, «possa essere ricordata, ma non ripetuta!», dicono i libanesi ogni volta che viene citato il conflitto che ha provocato la morte di 150mila libanesi, l'esodo forzato di centinaia di migliaia, ma anche la fine del mito della “Svizzera del Medio Oriente”. Eppure, un sondaggio pubblicato dal quotidiano an-Nahar mostra che il 52 per cento dei libanesi temono che la guerra possa scoppiare nuovamente a causa delle crescenti tensioni interne e regionali.

Nel 1975, i libanesi erano divisi sulla questione dei palestinesi armati, oggi lo sono invece sul ruolo militare di Hezbollah. Quello che manca ancora, infatti, è una versione unificata dei fatti accaduti in quei 15 anni di terrore. Tipo quello che hanno intrapreso i Fighters for Peace (i Combattenti per la pace), un gruppo di ex miliziani che si erano affrontati con le armi durante la guerra. «Dalle periodiche riunioni che organizziamo, spiega Pierre, abbiamo imparato a capire le ragioni e apprensioni gli uni degli altri». Dalla fine ufficiale della “guerra civile”, lo spettro di altre guerre si è più di una volta affacciato sul Paese dei Cedri. «Temiamo - aggiunge - che i giovani libanesi, a cui non viene insegnata la storia del conflitto a scuola, cadano come noi nella trappola della violenza».

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