«Se non interviene l’Europa, se non interviene la Nato, se non intervenite voi italiani la Libia andrà in pezzi, più di quanto non lo sia già adesso. E saranno guai per tutti, non solo per noi». Parla al telefono satellitare il generale Razah Nouradin, vecchia conoscenza dai tempi della rivoluzione. Dove si trovi non lo sappiamo, ma ce lo immaginiamo ugualmente nella sua lucente divisa azzurra e viola, con i bottoni d’oro e le tante mostrine. Ma di quale Libia stiamo parlando? Quella dell’epoca gloriosa della rivolta è ormai un ricordo. Tutto è cambiato rispetto al marzo 2011, quando ci si acquartierava a Bengasi, da dove era scoccata la scintilla della rivoluzione che aveva infiammato la Cirenaica. Tobruk, Derna, Ras Lanuf erano già retrovie relativamente sicure e solo Sirte e Misurata resistevano, mentre le incursioni dei cacciabombardieri della Nato spianavano la via agli
shabaab, i giovani in armi che partivano al mattino con i loro pick up per andare al fronte, anche se a quel tempo Gheddafi disponeva ancora di un esercito, di mezzi corazzati, di artiglieria pesante. Si dovette attendere l’insurrezione di Tripoli, un agosto di fuoco e di scorrerie, i morti per le strade, il raiss rifugiato chissà dove, i fedelissimi in rotta, e alla fine Gheddafi scovato mentre fuggiva nel deserto, una morte barbara, frettolosa, misteriosa. Si tornò un anno dopo nella Libia che tentava la strada della democrazia e si capì ben presto che la primavera di quella che era stata la nostra quarta sponda era poco più che un’illusione. Gli
Zintan, clan tribale decisivo nella conquista di Tripoli, si erano aggiudicati il controllo dell’aeroporto commerciale della capitale. I salafiti invece si erano impadroniti delle divise dell’esercito e si erano messi le stellette, proclamando la
sharia e promettendo a breve uno Stato islamico su modello saudita. La Cirenaica invece meditava una secessione che sotto traccia c’era sempre stata: volutamente trascurata dal diffidente Gheddafi, aveva cominciato ad assaporare un simulacro di democrazia e soprattutto ad annusare l’acre aroma del petrolio, l’unica vera grande inesauribile ricchezza della Libia, la stessa che aveva riempito d’oro i forzieri del rais e dei suoi familiari e che aveva finanziato e foraggiato il terrorismo internazionale. Tripolitania, Cirenaica e Fezzan (la grande distesa desertica a sud della linea costiera, oggi crocevia di ogni tipo di attività: dal commercio di armi alla droga, dal traffico d’organi all’infiltrazione di terroristi) rimanevano tre distinte entità in una Libia che non riusciva a formare un governo nazionale, che non era in grado di darsi un corpo di polizia, che non aveva i mezzi per amministrare la giustizia. Entità territoriali inconciliabili e un gran movimento di clan, sottoclan, bande e fazioni. Si sparava per le strade, si spedivano missili
grad come lugubre messaggio al candidato premier di turno, si tendevano agguati e si commettevano omicidi eccellenti, come quello di Chris Stevens, ambasciatore statunitense in Libia, massacrato a Bengasi da un commando che assaltò la sede consolare. Lo sguardo che si posa oggi sulla Libia è ancor più sconfortante. A est, in Cirenaica, alloggia il Parlamento riconosciuto, che però sta in esilio a Tobruk e da dove il generale Khalifa Haftar – ex sodale di Gheddafi, poi caduto in disgrazia, quindi recuperato dagli americani e oggi uomo forte dell’esercito – guida la controrivoluzione con il sostegno del Cairo e dei Paesi del Golfo che gli garantiscono i cacciabombardieri con cui colpisce Bengasi. Haftar ha stretto alleanza con gli Zintan e assicura che libererà l’intera Libia. Ma non è così. Basti pensare che quelle che all’epoca dell’insurrezione erano solo timidissime avvisaglie della penetrazione qaedista (ci capitò di individuarne più d’uno nei campi di addestramento degli
habaab) oggi sono brigate organizzate, come Ansar al-Sharia, che agisce a Sirte e Bengasi, o Alba Libica, che comanda a Misurata, «ma soprattutto – dice Nouradin – è a Derna che bisogna guardare, perché lì da poco è nato il Califfato di Barqa». Barqa, l’antico nome della Cirenaica, avamposto di quella Reconquista alla rovescia che vorrebbe riprendersi non solo il Maghreb, ma anche i regni moreschi andalusi perduti nel 1492 e financo – così proclamano con la iattanza folle dell’esaltazione religiosa i seguaci del califfo Abu Bakr al–Baghdadi – giungere alle porte di Roma e piantarvi le nere bandiere dello Stato islamico. La presenza del Is ha cambiato anche le rotte dei migranti che abitualmente partivano dalle coste libiche: oggi prendono la via del mare dall’Egitto, un tragitto un po’ più lungo e più sorvegliato. Da giorni le autorità del Cairo bloccano navigli e arrestano scafisti. «Da gennaio – riferisce il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni – ci sono stati 162mila sbarchi, rispetto ai 40mila dell’anno scorso, e dobbiamo essere consapevoli che il 90% avviene attraverso la Libia. E noi non ci rassegniamo a una Libia divisa e in guerra». In questo quadro caotico e denso di incognite solo l’Egitto del generale al-Sisi (insieme alla laicizzata Tunisia) è l’unica isola di relativa stabilità nel mondo arabo all’indomani della caduta di Gheddafi e non per caso agisce di concerto con i Paesi del Golfo nel sostegno finanziario e militare al generale Haftar. Tuttavia le brecce che si sono aperte dopo quarantadue anni di dittatura della Jamahiriya hanno spalancato le porte al radicalismo islamico, che soprattutto in Cirenaica rappresentava l’unica possibile forma di opposizione al regime. Un radicalismo che dal Marocco alla Siria ha finito per assumere forme e volti diversi, dall’integralismo salafita all’ambigua ideologia dei Fratelli musulmani, dal jihadismo che insidia la primazia di Hamas nella Striscia di Gaza fino alla punta di lancia dello Stato islamico, la cui penetrazione in Iraq, in Siria ed ora anche in Libia costituisce la vera pressante minaccia per chi si affaccia sul Mediterraneo. A oltre tre anni quella poco esaltante avventura militare iniziata precipitosamente nel 2011 da Sarkozy (nella quale venne coinvolta e trascinata la stessa Nato e quindi anche l’Italia) possiamo senza fatica affermare che la caduta di Gheddafi – inevitabile, probabilmente, e per certi versi necessaria – ha soltanto schiuso il vaso di Pandora del più fanatico degli integralismi che si è saldato con gli immensi appetiti che inevitabilmente suscita l’economia di un Paese che tuttora si basa al 95% sugli introiti e sulla redistribuzione della rendita petrolifera. Troppo perché il fronte sud dell’Europa, a un tiro di schioppo dalle coste di una Libia in preda a una violenta anarchia generalizzata, possa fingere che nulla sia accaduto. E troppo anche per continuare a chiudere gli occhi di fronte allo stillicidio delle migliaia di migranti che i trafficanti di vite umane per anni hanno gestito con profitto dai porti libici.