Ansa
Va di male in peggio in Afghanistan. Lo stallo militare è completo. Si profila un semi-scacco per le forze governative. Tira aria di sconfitta. L’economia non decolla. Manca la presa del centro su molte aree rurali. I militari sono statici, sembrano usciti da un’epoca lontana, privi di un’intelligence veramente affidabile. La catena logistica fa acqua da tutte le parti. La corruzione è endemica.
L’insorgenza taleban dilaga nuovamente, come dimostrano l’attacco alla base militare di Mazar-e-Sharif e la fresca conquista del distretto di Sangin. Gli Usa stanno correndo ai ripari. Hanno rispedito i marine in prima linea, nell’Helmand, la “tomba di tutti gli imperi”. E si preparano a una mini-escalation.
Tre-cinquemila uomini dell’82esima divisione sono sul piede di partenza. E al vertice Nato di Bruxelles, giovedì scorso, molti europei hanno concordato un ulteriore sforzo. La consistenza delle forze e i compiti loro assegnati saranno definiti entro fine giugno. Jospeh L. Votel, numero uno del Comando centrale americano, parla senza retorica. Non è più tempo di proclami e peana, perché le cose vanno a rotoli: «Il governo controlla solo il 60% del territorio».
Il resto è terra “nullius”, in mano ai taleban per il 10% e fortemente conteso tra le parti nel restante 30%. C’è un dato che non mente, epitome delle difficoltà crescenti del governo di Kabul: nel 2016, oltre un migliaio di scuole ha chiuso i battenti per le condizioni di insicurezza cronica. Un numero doppio rispetto all’anno precedente. È un fallimento su tutta la linea. Anche perché le forze di sicurezza afghane stanno incassando anno dopo anno perdite altissime, con più di 7mila morti attuali contro i 5mila del 2015.
Non tengono, nonostante l’aviazione statunitense stia moltiplicando i raid di supporto. La presidenza Trump ha alleggerito tutte le regole d’ingaggio, a discapito dei civili, dando mano libera ai militari. Un pessimo segnale. Anche perché in un futuro prossimo gli Stati Uniti non saranno più solitari nel mandare i droni armati in guerra. In Afghanistan c’è bisogno di un mix sapiente di forza militare e di offensive diplomatico- umanitarie. Non esiste una ricetta pronta all’uso, ma l’“hard power” di Trump non andrà da nessuna parte senza le misure imprescindibili di “soft power”, molto trascurate agli albori indisponenti della nuova Amministrazione. Quarant’anni di guerre e di crisi ininterrotte hanno visto avvicendarsi in Afghanistan governanti, invasori palesi e ingerenze occulte di potenze straniere. È dal 1979 che il Paese non ha tregua. La guerra ha lasciato sul campo oltre un milione di vittime e mutilati e non meno di sei milioni di profughi.
Ma i numeri sono provvisori, perché altre battaglie si profilano all’orizzonte. Mentre scriviamo, i taleban minacciano direttamente altre sei capitali provinciali, l’affascinante Laskhar Gah nell’Helmand, feudo dei pashtun, Kunduz nella provincia omonima, espugnata mille volte e altrettante persa, Tarin Kot nell’Uruzgan, che diede i natali al mullah Omar, Maimana l’indecifrabile, Farah dalle reminiscenze italiane, e Pol-e-Khomri nel Baghlan, nel nord più prossimo a Kunduz e al camaleontico Hekmatyar, signore della guerra, trasformista puro. Il problema è che i taleban stanno assestando colpi di maglio in tutte le stagioni dell’anno, anche nelle più proibitive.
Non si limitano più a guerreggiare solo in primavera- estate. Hanno un modus operandi tipico delle forze di guerriglia, ereditato a grandi linee dalle tattiche vincenti contro l’Armata Rossa. Tattiche aggiornate e perfezionate, ricorrendo a tecniche di imboscata più sofisticate, esplosivi perfezionati, attacchi multipli, rapimenti e omicidi, con lo scopo di demoralizzare funzionari locali e stranieri. Di più: i taleban hanno introdotto in questo scenario complesso gli attacchi suicidi. Hanno iniziato con il colpire i lavoratori civili, la polizia afgana e i funzionari governativi, cercando di destabilizzare il controllo da parte delle forze di sicurezza e del Governo. Operazioni che hanno spesso costretto al rischieramento su vaste aree delle forze di sicurezza, durissime nella risposta e puerili nell’alienarsi i civili. Verrebbe da chiedersi se in Afghanistan non abbiamo sbagliato i calcoli fin dall’inizio, colpendo i taleban e non limitandoci alla sola al-Qaeda.
Una schizofrenia militare che ha condannato gli americani a dover conseguire una vittoria assoluta e totale, senza appello. Sappiamo come sta andando a finire. I taleban sono ancora 30mila. E c’è di peggio. John Nicholson, generale comandante la missione Resolute Support, cita dati allarmanti: dei 98 gruppi terroristici censiti nel libro nero delle Nazioni Unite, 20 operano nella regione AfPak. «È la maggiore concentrazione mondiale», chiosa senza giri di parole il generale. Pochi collaborano con i taleban, che hanno un’agenda chiara: la restaurazione dello status quo ante 2001 e l’istituzione a lungo termine di un Califfato a cavallo fra l’Afghani-stan e il Pakistan, inclusivo delle aree tribali pachistane, a maggioranza pashtun, e del Kp (Khiber Pakhjunkhwa), altro territorio pashtun oltreconfine, da sempre santuario dei jihadisti in Afghanistan. Siamo intorno all’imprendibile linea Durand. Nessuno, da un lato o dall’altro, la controlla realmente.
Forse un giorno lo farà il Pakistan. Nel frattempo, i taleban la valicano ancora indisturbati. Fra Kabul e Islamabad non c’è accordo nemmeno sul confine, un tracciato irrazionale, lontano perfino dai lineamenti orografici del terreno. I santuari delle aree tribali hanno garantito ai mujaheddin prima e alla galassia taleban-qaedista poi di costruire dei rifugi difficilmente espugnabili, anche perché l’esercito pachistano discrimina fra taleban “buoni” (Haqqani e Hezb-i Islami) e “cattivi” ( Tehrik), attaccando solo i secondi, perché responsabili di attentati nel territorio nazionale. La verità è che il Pakistan ha interesse a mantenere instabile e debole il suo vicino, per garantirsi profondità strategica contro l’India e prevenire qualsiasi realizzazione dell’incubo storico nazionale: la secessione delle terre pashtun a ridosso dell’Afghanistan. Un vicino forte, organizzato e pienamente sovrano, amministrato da pashtun meno acquiescenti dei taleban, avrebbe tempo ed energie da dedicare al sogno del Grande Afghanistan.
Ecco perché a Islamabad continuano a tramare contro il duo oggi al potere a Kabul. Il presidente Ashraf Ghani e la sua controfigura Abdullah Abdullah rappresentano il mondo pashtun e tagiko, quanto di più inviso al Pakistan e ai suoi accoliti. Secondo molte fonti, sarebbero cellule dei Servizi segreti pachistani ad avere interesse a intervenire, e a rimanere, in Afghanistan, nella speranza di ghermire nuovamente la loro miniera d’oro, fonte di ricchezza inestimabile: la produzione di oppio, ricostruendo la vecchia alleanza con il radicalismo religioso pashtun, i Signori della droga e altri potentati locali. Tutti accomunati da un interesse coincidente: consolidare le istanze centrifughe rispetto al potere centrale. I taleban stanno però sparigliando molte carte. Ricevono aiuti dalle fondazioni saudite e dagli sceicchi del petrolio, e distraggono fondi dagli aiuti allo sviluppo. Hanno attirato le simpatie di russi, iraniani e cinesi, tutti convinti che siano il male minore di fronte all’emergere del jihadismo nichilista del Daesh. Hanno dimostrato che la loro agenda è limitata quasi esclusivamente alla lotta nazionale.
L’incapacità della Nato e degli americani di vincerne la ribellione dovrebbe dimostrare che la via d’uscita non passa per la “hybris” militare. Tant’è vero che negli ultimi tempi stiamo assistendo a una mini-rivoluzione copernicana. Se in passato la guerra civile afghana aveva diviso Iran e Pakistan, oggi potrebbe offrire molti spunti di convergenza, alimentando un cammino di pace inter-afghano, sotto l’egida russo- cinese e dell’Onu. Un fatto positivo per l’insieme dell’Asia centrale (e del mondo).