Durezza della guerra, fatica della pace: Kabul ci riguarda
sabato 6 maggio 2017

Su un crinale sempre più scivoloso. A distanza ormai di sedici anni dall’intervento militare dell’autunno 2001 contro i taleban, e nonostante tutti gli sforzi profusi dalla Nato, l’Afghanistan non riesce a trovare una sua stabilità. Lo scenario di sicurezza è indubbiamente l’elemento di maggior preoccupazione, sia pure non l’unico: le perdite delle forze di sicurezza nazionali sono allarmanti, così come impressionano i civili uccisi negli attacchi dei gruppi jihadisti e dei taleban.

Secondo le Nazioni Unite, il 2016 è stato l’anno con il maggior numero di vittime fra la popolazione, con più di 11.000 fra morti e feriti gravi documentati (ma si stima che i numeri reali siano più alti). Inquietano anche le minacce mirate a chi collabora alla ricostruzione del Paese, fatto che si traduce in una limitazione delle iniziative umanitarie e di cooperazione. Lo stesso personale della Croce Rossa internazionale ha subito sanguinosi attacchi da parte del Daesh. Una delle poche note positive è, invece, quella relativa proprio alla forza reale nel Paese dei jihadisti affiliati al "califfo nero": essa è in calo, mentre aumenta la pressione, soprattutto aerea, della coalizione internazionale (non a caso l’Amministrazione Usa, rivedendo valutazioni e priorità, ha promesso di accrescerla).

La guerra con i taleban, al contrario, preoccupa molto, e non solo i vertici Nato. Nonostante l’aiuto occidentale, le forze armate afghane faticano a rintuzzare gli attacchi, tanto che oggi le milizie islamiste occupano più del 10% del territorio e contendono il possesso di un altro 30%. Di fatto, il governo di Kabul controlla efficacemente metà del Paese, o poco più. È evidente ormai da anni che la battaglia contro i taleban non può essere vinta militarmente, ma che è necessario – per quanto risulti molto indigesto – cercare un compromesso politico. Il meno disonorevole possibile.

Ma è proprio sul piano politico che l’impasse si sta incancrenendo. Tutti gli schieramenti sono fortemente divisi al loro interno e perseguono interessi di parte, mentre gli attori regionali e internazionali interferiscono pesantemente, aggravando le contrapposizioni. Gli stessi taleban sono ormai una galassia dalle strategie divergenti: vi è chi punta ad accordi locali per massimizzare il proprio potere su di una parte del territorio, chi è disponibile a un accordo complessivo, chi vagheggia il crollo dell’odiata repubblica afghana, per ricreare nuovamente un emirato islamico.

Il Pakistan, da sempre vicino ai taleban continua a interferire nelle trattative, per mantenere il proprio potere di condizionamento e perché il suo governo è incapace di tagliare i legami oscuri che legano i movimenti islamisti più radicali alle forze armate e, in particolare ai potentissimi servizi segreti militari.

Tutto ciò non produrrebbe gli effetti devastanti che dobbiamo invece registrare, se non fosse per la fragilità estrema del quadro politico interno. Il governo del presidente Ghani è indebolito dalle continue rivalità etniche e personali, dalla corruzione (che rimane imperante) e dalla cattiva amministrazione centrale e periferica. Da questo punto di vista, gli sforzi lunghi tre lustri della comunità internazionale per favorire una crescita del sistema politico afghano sono stati estremamente deludenti e parziali. Il mal governo si intreccia con lo sfruttamento e il contrabbando delle "materie prime" del Paese: marmo e minerali, ma soprattutto, ancora e sempre droga. Un business enorme che finanzia il conflitto civile, impoverisce gli afghani e scatena appetiti trasversali agli schieramenti, rendendo estremamente complessa la comprensione delle dinamiche attive nei singoli distretti.


Dinanzi a una situazione così piena di ombre, potrebbe tornare a farsi strada l’idea di un disimpegno dal sostegno al governo di Kabul. Ma resisterle è necessario. In fondo, tutte le missioni di stabilizzazione e di peace-keeping internazionali lavorano per tempi lunghi: dalla ex Jugoslavia al Kosovo e al Libano meridionale – per citarne alcune in cui le nostre forze militari sono presenti – l’impegno si misura in decenni, più che in anni. Non deve quindi sorprendere che la missione più complicata di tutte, quella in terra afghana, richieda il nostro sforzo per ancora molti anni a venire. E ci riservi, spesso, più delusioni che soddisfazioni. Ma la costruzione della pace nella giustizia richiede equilibrio, lungimiranza e pazienza. Kabul ci riguarda.

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