Ansa
Negli anni Ottanta era molto famosa in Libano una pièce teatrale che si intitolava «Lungometraggio americano». Oggi gli americani con il Libano c’entrano ben poco, ma il lungometraggio c’è tutto. Dura da un anno. La trama è fitta. Imbastita sulle aride discussioni che vanno avanti dall’esplosione nel porto della capitale, con le successive dimissioni del governo di Hassane Diab, per la formazione «urgente» di un nuovo esecutivo; sul circolo vizioso in cui si trova l’inchiesta sulla tragedia, con i leader politici refrattari alla revoca dell’immunità parlamentare; sulla totale indifferenza dell’establishment politico nei confronti di una popolazione stremata da una crisi considerata dalla Banca mondiale nella “top ten” delle peggiori al mondo dal 1850. Non mancano la suspense e l’azione, in questo lungometraggio inconcludente: c’è stata l’eliminazione fisica di un intellettuale scomodo; c’è stato un intermezzo di blackout totale; ci sono stati – lo abbiamo visto anche domenica – violenti scontri a fuoco tra miliziani armati. Ormai è chiaro che dietro allo stallo politico cova una crisi di sistema.
La rinuncia, a metà luglio, del primo ministro incaricato Saad Hariri – dopo aver constatato l’impossibilità di un accordo con il presidente Michel Aoun – e il nuovo incarico a Najib Mikati sono soltanto gli ultimi colpi di scena. Mikati ha avuto ieri il suo quarto incontro con Aoun, risultato anch’esso inconcludente. L’impasse riguarda soprattutto l’attribuzione dei portafogli della Giustizia e dell’Interno, che fanno gola a tutti visto il loro ruolo centrale nell’eventuale apertura di inchieste anticorruzione o nell’organizzazione delle prossime elezioni legislative di maggio 2022. Un altro punto di divergenza tra i due è il cosiddetto “terzo di blocco”, cioè il controllo su un terzo dei ministri più uno necessario a bloccare ogni proposta all’interno dell’esecutivo. Insomma, gli alti (ir)responsabili libanesi sembrano guardare più a come trarre il maggior vantaggio dalle loro cariche istituzionali piuttosto che agli interessi nazionali e alle riforme in grado di risollevare il Paese dalla sua profonda crisi.
Nessuna meraviglia, se si considera che i risultati del nuovo Parlamento condizioneranno, a loro volta, l’elezione nell’autunno del 2022 di un nuovo presidente della Repubblica. Ecco perché l’Europa guarda esterrefatta al deterioramento politico in Libano. Venerdì scorso, il Consiglio dell’Ue ha adottato un quadro per misure restrittive mirate che prevede «la possibilità di imporre sanzioni nei confronti di persone ed entità responsabili di compromettere la democrazia o lo Stato di diritto in Libano». Non ci sono per il momento elenchi nominativi, ma tutto fa intendere che la pazienza di Bruxelles sta per esaurirsi. Le pressioni europee vanno nella direzione voluta dal Papa quando, alla conclusione della Giornata di riflessione e di preghiera per il Libano celebrata in Vaticano il 1° luglio, ha chiesto alla comunità internazionale che «siano poste le condizioni affinché il Paese non sprofondi».
Perché dietro le evidenti responsabilità interne si celano anche manovre regionali che tengono in ostaggio il Paese dei cedri. La grande incognita riguarda l’esito dei negoziati di Vienna tra Usa e Iran non solo su un nuovo accordo nucleare ma anche sui vari dossier della regione. Il timore è che il Libano finisca come “premio di consolazione” per il tutore di turno – come nel 1990 durante la Guerra del Golfo –, oppure rimodellato secondo nuovi equilibri confessionali, che saranno sicuramente meno vantaggiosi per i cristiani. Il lungometraggio libanese è destinato ad aspettare ancora a lungo la parola fine.