Proteste a Tel Aviv degli eritrei che rischiano la deportazione
Eritrea sempre più oppressa mentre nuove tensioni su acqua e confini minacciano la stabilità nel Corno d’Africa e una impennata dei flussi verso l’Europa. Dopo la chiusura di cinque cliniche cattoliche da parte del regime dell’Asmara – come riportato all’agenzia Fides da don Mosè Zerai, cappellano della comunità eritrea in Svizzera – per la rigida applicazione della legge che vieta attività private in campo sanitario, il prete torna a riferire di episodi di repressione della protesta giovanile, dopo la chiusura della scuola islamica a fine ottobre e gli spari contro gli studenti che non volevano fosse consegnato alle autorità l’elenco degli iscritti per non venire richiamati alle armi al quarto anno.
Secondo notizie trapelate dalla cortina che avvolge il piccolo Stato africano – il più repressivo al mondo dopo la Corea del Nord a detta anche delle Ong per i diritti umani – e raccolte da don Zerai, è finita male lo scorso dicembre anche una protesta di 7.500 reclute del campo di addestramento di Adi- haro contro i maltrattamenti, il basso salario e l’impiego da parte degli ufficiali della truppa in lavori forzati anche nel settore privato. Dopo essere riusciti a incontrare il presidente Issaias Afewerki per esporgli le ragioni del malcontento, i giovani sono stati deportati per ordine dell’uomo forte dell’Asmara nel campo di rieducazione di Naro senza cibo né acqua.
Diverse le vittime, stremate dalle privazioni, stando sempre alle testimonianze raccolte dal sacerdote. Nella capitale, intanto, confermano diversi osservatori e membri dell’opposizione, prosegue la chiusura di negozi, alberghi, ristoranti a causa delle restrizioni sui prelievi bancari (330 dollari mensili a testa) che portano all’asfissia della piccola impresa. Segno dell’indifferenza del regime verso l’iniziativa privata e il turismo. Mentre non si placano in Israele le polemiche e le proteste per la deportazione in Ruanda e Uganda di richiedenti asilo, in prevalenza etiopi e sudanesi. Continuano anche le proteste davanti alle ambasciate di Kigali e Kampala a Tel Aviv, almeno tre piloti della compagnia di bandiera israeliana El Al hanno annunciato che si rifiuteranno di compiere i rimpatri dei profughi in Africa. La chiusura delle cliniche e i “sigilli” ai confini da parte del Sudan per la recente crisi che sta alzando la tensione nella regione ha inoltre bloccato a Khartum diversi eritrei recatisi nel Paese confinante per curarsi, visto che le operazioni sono diventate rischiose negli ospedali eritrei dove sono frequenti le interruzioni di energia elettrica.
Tra Tesseney e Kassala, il confine più poroso dell’Africa per il traffico di esseri umani è stato intanto chiuso. Sono state decise infatti esercitazioni dell’esercito eritreo e delle truppe sudanesi. Un’escalation iniziata secondo media africani il mese scorso quando il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è andato in Sudan in vista per la prima volta stipulando accordi commerciali con l’omologo sudanese Omar el-Bashir e cedendo temporaneamente ad Ankara la storica città portuale di Suakin, ufficialmente per restaurarla, in pratica per creare un punto di appoggio per le navi militari turche nel Mar Rosso. L’intesa è stata duramente criticata dal Cairo nemico della Fratellanza musulmana di cui Erdogan è considerato sostenitore e l’Egitto ha risposto, ha riferito al-Jazeera, inviando in una base eritrea gestita dagli Emirati Arabi Uniti, al confine con il Sudan, un centinaio di soldati dotati di armi sofisticate e blindati.
Khartum ha reagito richiamando l’ambasciatore al Cairo per consultazioni e sigillando la regione di Kassala al confine con l’Eritrea, dove ha schierato migliaia di soldati. Sullo sfondo c’è il problema della diga sul Nilo Azzurro che coinvolge l’Etiopia, il Sudan e l’Egitto. Per realizzare il progetto da 4,8 miliardi di dollari l’Etiopia ha deciso unilateralmente di deviare il corso del fiume. Il premier etiope ha garantito che non creerà problemi idrici ai due vicini, aumentando la produzione di energia elettrica. Ma c’è chi teme un conflitto tra Egitto ed Eritrea da un parte ed Etiopia e Sudan sostenuti dalla Turchia di Erdogan dall’altra. Tutti Paesi finanziati dall’Unione Europea con centinaia di milioni di euro per vigilare sui confini e ridurre i flussi migratori. E con cieca fiducia.