.jpg?width=1024)
Le vittime dei raid israeliani su Gaza - Reuters
Si vis pacem, para bellum. Al di là del motto variamente attribuibile a Platone come a Cornelio Nepote, la pace è un buon affare, ma la guerra lo è ancor di più. Lo sanno bene tutti i satrapi e gli autocrati del mondo, ma lo sanno anche i leader delle disorientate democrazie occidentali, che in ossequio a quel precetto si stanno armando. Perché la guerra, il caos sono ingredienti millenari che tendono a rafforzare l’immobilismo di chi detiene il potere, soprattutto laddove quel potere non è sorretto dal consenso.In questo senso possiamo leggere con desolante apprensione la ripresa del conflitto a Gaza e la nuova catasta di morti innocenti, la rappresaglia americana nello Yemen, il capriccioso rifiuto della dirigenza di Hamas di consegnare all’America un ostaggio israelo-statunitense e le salme di undici americani-israeliani morti in cattività dopo il rapimento del 7 ottobre, il fallimento della seconda fase della tregua faticosamente concordata a Doha e il conseguente irrigidimento dell’asse Mosca-Pechino, che ha subitaneamente esteso il proprio ombrello protettivo sull’Iran e il suo programma nucleare civile.
Epicentro del nuovo caotico ribollire dei tamburi di guerra è ancora il Medio Oriente. Ma, nonostante l’importanza cruciale di Israele e il suo difficile ruolo in una scacchiera paralizzata dai veti incrociati che vede allontanarsi quel disegno noto come “Accordi di Abramo” che prima del fatidico 7 ottobre sembrava poter schiudere un diverso futuro, si tratta solo di una tessera del più vasto mosaico di quel Great Game che mai sembra aver fine.
Un Grande Gioco che coinvolge tutti, perché in palio c’è quel Novus Ordo che sta lentamente prendendo forma e che insieme al rombo del cannone oggi viaggia sul filo delle conversazioni telefoniche fra Donald Trump e Vladimir Putin. Due campioni del potere assoluto, quello che Thomas Hobbes nel Leviatano proclamava come necessario per circoscrivere l’istinto di sopravvivenza e di sopraffazione che è proprio dell’uomo. In questo gioco siamo tutti coinvolti. Dalla Germania che si precipita a convertire l’acciaccata industria automobilistica in operosa manifattura di armamenti (ma non era già accaduto quasi un secolo fa dopo Versailles?), ai sovranistinazionalisti europei che plaudono a un’America neo-rooseveltiana, decisionista, spietata, pragmatica e devota al culto della forza.
E quando diciamo neo-rooseveltiana alludiamo non al più noto Franklin Delano, ma al suo predecessore Theodore, Premio Nobel per la pace nel 1906 (sic!), ritratto nel granito di Mount Rushmore in compagnia di Washington, Jefferson e Lincoln. Bene o male, dalla prospettiva di una pace duratura siamo nuovamente tornati lì, al mestiere delle armi e della forza, gli utensili preferiti di chi governa il mondo, ciascuno con il proprio stile, chi con il soft power, chi con gelida e scacchistica astuzia, chi con ruvida veemenza da venditore di stracci. Il risultato è identico: è la minaccia di guerra a muovere i pezzi del risiko. In mezzo ci sono decine, centinaia di morti ogni giorno. Ieri di nuovo a Gaza, dove si è rotta la fragile tregua e si contano già oltre 400 morti, più di 100 i bambini, chissà per quanto ancora nelle sfiancate trincee ucraine.
Sarà difficile ora ricomporre quel mosaico che per un po’ baluginava come un miraggio di pace dai vari conciliaboli egiziani, qatariani, pechinesi. Ora i conciliaboli si fanno per comporre coalizioni armate. In compenso, oltre al rumore di sciabole si avverte il frenetico schioccare di quel pallottoliere che già promette ai fabbricanti di armamenti fatturati record, exploit mai visti, impennate miliardarie nelle commesse che il riarmo mondiale impone.
«Dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra». Sono parole del Papa, contenute nella lettera inviata al direttore del “Corriere della Sera”, Luciano Fontana. Nuovamente e per tre volte il Santo Padre ha adoperato un verbo che nessuno ha più il coraggio e l’intenzione di pronunciare: disarmare. E qui sta la vergogna di tutti noi.