lunedì 30 dicembre 2024
Gli integralisti hanno rinnovato anche il divieto alle Ong di dare lavoro a personale femminile
Bimba con la madre in burqa in un cimitero alle porte della capitale afghana Kabul

Bimba con la madre in burqa in un cimitero alle porte della capitale afghana Kabul - Ansa

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Prima segregate e annegate nel silenzio. Adesso, addirittura, murate. La tenaglia dei taleban sulle donne afghane si stringe sempre più forte. Il loro ultimo diktat impone che i palazzi in costruzione non abbiano finestre che si affacciano su ambienti, come la cucina o il cortile di un’abitazione vicina, in cui è probabile trovare donne alle prese con attività quotidiane come la preparazione dei pasti o la raccolta dell’acqua dai pozzi. Quelle già esistenti vanno invece murate. Come nelle favole dei fratelli Grimm in cui le principesse vengono richiuse in torri senza spiragli. Questa, invece, è realtà. L’obiettivo è evitare che lo scorcio aperto su corpi femminili, magari alleggeriti in casa dal peso dei burqa, “possa portare ad atti osceni”. Il decreto in cinque articoli firmato dal leader supremo Hibatullah Akhundzada, rilanciato sul social network “X” dal portavoce del governo di Kabul, Zabihullah Mujahid, invita le autorità locali a lavorare d’intesa con i costruttori e i proprietari di immobili al fine di garantire l’effettiva applicazione della stretta. Anche a costo dover costruire nuove barriere tra una casa e l’altra.

Quale sarà, ci si chiede, la mossa successiva? Da quando sono tornati al potere, ad agosto 2021, i taleban hanno inanellato una lunga serie di restrizioni per donne. Ottanta per l’esattezza: vietata la scuola superiore e l’università, l’accesso ai parchi e ai luoghi pubblici, il canto e la poesia ad alta voce, le apparizioni radiotelevisive e il lavoro. Il ministero locale dell’Economia, lo scorso 26 dicembre, ha ricordato alle Ong internazionali di stanza in Afghanistan che il mancato rispetto dell’ordine di non assumere collaboratrici donne, disposto due anni fa, potrebbe essere punto con la sospensione della licenza e l’azzeramento di tutti i progetti in corso. All’inizio del mese, ancora, sono stati (ufficiosamente) banditi alle donne, “fino a data da destinarsi”, anche tutti corsi per l’accesso alle professioni sanitarie, compresa l’ostetricia, che il governo aveva promesso di tenere aperti alle ragazze.

A nulla sono valsi gli appelli della comunità internazionale a mitigare quella che le Nazioni Unite hanno definito «apartheid di genere». La risposta dei taleban, sempre più lontani dal riconoscimento della propria legittimità, è un rinnovato invito a evitare interferenze con la politica locale e a rispettare la legge basata sulla Sharia. La cronaca da Kabul comincia tuttavia a registrare scricchiolii nell’esecutivo proprio sul pugno duro contro le donne segnalando, per esempio, l’intervento del ministro degli Interni, il non moderato Sirajuddin Haqqani, che parlando in una madrasa del distretto di Paghman ha velatamente criticato la leadership ultraconservatrice di Akhundzada insistendo sulla necessità di riforme e sull’idea che «se le persone tendono all'infedeltà o alla corruzione, è per le carenze di chi è al potere».

Qualche settimana dopo, suo zio Ur-Rahman Haqqa, ministro per i rifugiati, è morto in un attentato. Gli afghani sono arrivati a sperare che qualcosa, per loro, possa cambiare, come per contaminazione, se Kabul riuscirà a costruire relazioni diplomatiche stabili almeno con il governo provvisorio di al-Jolani, in Siria, che ha messo una donna, Aisha al-Dibs, alla guida dell’ufficio per gli affari femminili di Damasco. Sarà una favola pure questa?

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