lunedì 11 novembre 2024
L'Afghanistan è tra i dieci Paesi più colpiti dal riscaldamento globale. L'Onu, dunque, ha consentito una rappresentanza a Baku, ma senza status ufficiale. Perché è una buona occasione
La cerimonia con cui i taleban hanno festeggiato l'anniversario della presa di Kabul, l'estate scorsa, a Parwan

La cerimonia con cui i taleban hanno festeggiato l'anniversario della presa di Kabul, l'estate scorsa, a Parwan - Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

I principali capi di Stato e di governo del G20 non hanno trovato spazio nelle rispettive agende, zeppe di urgenze geopolitiche.

La 29esima Conferenza Onu sul cambiamento climatico (Cop29), iniziata ieri a Baku, vedrà oggi e domani alternarsi sul palco della plenaria una novantina di leader internazionali. Meno della metà dei 197 Paesi più l’Ue chiamati a decidere la quantità di finanziamenti da mobilitare per tenere la temperatura globale all’interno della soglia di equilibrio degli 1,5 gradi entro la fine del secolo.

All’assenza dei Grandi, ha fatto da contraltare una presenza “inattesa”: quella della delegazione afghana. Non si tratta di una rappresentanza politica a tutti gli effetti. Il governo dei taleban, al potere a Kabul dal 15 agosto 2021, non è riconosciuto dalla comunità internazionale per la sistematica negazione dei diritti delle donne, dall’istruzione alla libertà di circolazione. L’Emirato d’Afghanistan – il regime che ha sostituito la Repubblica filo-occidentale – era stato, dunque, escluso dagli ultimi tre vertici sul clima.

Una scelta dolorosa dato che la nazione è tra le dieci più vulnerabili al riscaldamento globale e la sesta nella lista delle più esposte ai fenomeni estremi. Appena lo scorso inverno, forti nevicate e piogge torrenziali hanno distrutto quasi 200mila ettari di superfici coltivabili, acuendo la povertà estrema in cui vive oltre la metà della popolazione. Già alla Cop28 di Dubai, si era discusso – off the records – su come consentire una presenza dell’Afghanistan che non rappresentasse, però, una legittimazione politica.

La “formula Baku” prevede la partecipazione di una squadra tecnica – il direttore dell’Agenzia nazionale di protezione ambientale, Mawlawi Matiulhaq Khalis, insieme a un gruppo di esperti –, priva dello status di rappresentanza governativa. Senza, dunque, diritto di parola nell’Assemblea dei leader ma con accesso libero agli evidenti cosiddetti di secondo livello, di tipo più tecnico che politico. Per i taleban si tratta, comunque, di un debutto mondiale: la Cop29 è l’evento internazionale di maggior rilievo a cui sono stati ammessi, pur dalla porta di servizio. Non è un segreto che il regime di Kabul stia cercando in ogni modo un ritorno sulla scena globale da cui dipende lo sblocco della metà dei sette miliardi di fondi della Repubblica depositati negli Usa. Nonché una maggiore possibilità di attrarre investimenti internazionali. Nell’ultimo anno ci sono stati dei segnali, pur ambigui, di riavvicinamento.

Proprio l’Azerbaigian, a febbraio, ha riaperto l’ambasciata nella capitale afghana. A giugno, a Doha, c’è stato il primo colloquio diretto con le Nazioni Unite. Ora il summit di Baku. Gli attivisti sperano che le trattative siano l’opportunità per fare pressione sul regime affinché compia qualche gesto nei confronti delle libertà femminili. Se non altro perché l’inclusione delle donne – sostiene il più recente studio dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) – «è essenziale per aiutare le società di fronte a eventi meteorologici sempre più estremi». Sarebbe, invece, un’occasione perduta se la presenza afghana diventasse il pretesto per fare affari sulle terre rare, i minerali critici essenziali per la transizione energetica, di cui le viscere dell’Afghanistan sono ricche.

Non sarebbe l’unico paradosso. Da quando l’Azerbaigian è stato scelto come sede della Cop – terzo petro-Stato di fila dopo Egitto e Emirati –, la compagnia pubblica Socar avrebbe siglato, secondo Global Witness, contratti petroliferi per 8 miliardi di dollari. Del resto, un anno dopo lo storico via libera all’avvio dell’uscita dai combustibili fossili, Big Oil ha fatturato oltre mille miliardi di dollari. Eppure, ha affermato ieri il segretario generale Onu António Guterres, «coloro che cercano disperatamente di ritardare l’inevitabile fine dell’era fossile perderanno».

Ogni riferimento a Donald Trump, che ha annunciato il nuovo ritiro degli Usa dagli Accordi di Parigi, non sembra puramente casuale. L’inviato dell’Amministrazione di Joe Biden, John Podesta, è stato esplicito:«Il lavoro per contenere il cambio climatico negli Stati Uniti non finirà con il nuovo presidente». Ogni battuta d’arresto, però, si profila rischiosa. Il collettivo di artisti collettivo belgi Captain Boomer lo ha denunciato con la sagoma di una gigantesca balena morta sulla costa di Baku: fatto frequente in un mare sempre più surriscaldato. Il 2024 potrebbe essere, ha appena annunciato l’Organizzazione meteorologica mondiale, l’anno più caldo di sempre. D

a qui l’accorato appello di papa Francesco, al termine dell’Angelus di domenica

, alla comunità internazionale perché trovi soluzioni efficaci «per la tutela della nostra casa comune».


© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: