Ana Beltran
L’alluvione che ha devastato il territorio di Valencia, con il suo pesantissimo tributo di vite umane, è stata l’occasione per riflettere sull’impatto dei cambiamenti climatici e sulle possibili misure per farvi fronte. Purtroppo, invece di muoversi nella ricerca di soluzioni condivise, il dibattito pubblico ha riproposto quasi automaticamente uno schema divisivo attorno a posizioni note, tra visioni apocalittiche o, per contro, di negazione di ogni evidenza scientifica. L’occasione della Conferenza delle Nazioni Unite sul clima, la Cop29, che si tiene da lunedì 11 al 22 novembre a Baku, in Azerbaigian, per quanto ridimensionata nelle attese, offre lo spunto per fare un po’ di chiarezza.
Una prima questione riguarda l’approccio alla sfida climatica nel suo complesso. Ci sono ricerche, come gli studi di attribuzione, che stimano quanto gli effetti sulla popolazione di un evento estremo possano dipendere dalle maggiori emissioni di CO2 in atmosfera a causa dell’uso di combustibili fossili: può anche trattarsi di una piccola percentuale, ma negare che l’impatto vi sia non è il modo migliore per procedere. In questa fase storica l’umanità dovrebbe trovare un passo capace di generare innovazione, ma soprattutto azioni di solidarietà.
Anche con le migliori tecnologie disponibili, infatti, è difficile che l’umanità riesca a invertire la tendenza di un cambiamento che può già essere considerato fuori controllo. Non nel senso dell’impazzimento del clima, ma perché è altamente probabile che, superato stabilmente il grado e mezzo di aumento della temperatura globale, anche qualora riuscissimo in seguito a rimuovere tutta la CO2 in eccesso, e riportare la temperatura a un livello accettabile, l’impatto di alcuni cambiamenti sarà irreversibile: l’innalzamento del livello del mare, lo scioglimento del permafrost o l’acidificazione degli oceani, con le conseguenze che tutto questo comporta, non sono cose che si sistemano alzando o abbassano una leva.
L’umanità, potremmo dire, è chiamata a uno sforzo di ricerca e avanzamento tecnologico importantissimo, ma anche a uno scatto di umiltà: non siamo in grado di governare tutto, e riporre un’eccessiva fiducia nelle possibilità della tecnologia può essere un atto di presunzione rischioso. In sostanza, se siamo d’accordo che alcune attività antropiche figlie della rivoluzione industriale riescono a modificare il clima, dobbiamo comunque fare tutto il possibile per accelerare il percorso di riduzione delle emissioni climalteranti.
Qui, però, si presenta un grosso problema, perché la domanda di energia nel mondo è in forte crescita: è aumentata del 15% negli ultimi dieci anni e salirà ancora, mentre i miglioramenti nell’efficienza energetica non procedono alla stessa velocità. A fare da traino è principalmente l’espansione delle economie meno avanzate: il Pil dei Paesi in via di sviluppo è cresciuto del 50% in un decennio, perché fenomeni come l’urbanizzazione, lo sviluppo dell’industria, l’aumento dei consumi, richiedono moltissima energia. Se guardiamo anche all’elettrificazione dei trasporti, alla massiccia diffusione di condizionatori per far fronte alle temperature più alte, ma anche allo sviluppo dell’intelligenza artificiale e alla diffusione delle criptovalute, si capisce che l’umanità avrà bisogno di dosi sempre maggiori di energia. Prodotta come?
Il rapporto 2024 dell’Agenzia internazionale dell’energia offre alcune indicazioni incoraggianti. Gli investimenti negli impianti per produrre energia “pulita” oggi sono il doppio di quanto viene speso per le centrali a combustibili fossili, due trilioni di dollari contro uno, ed è un successo se si pensa che dieci anni fa la quota maggiore delle risorse, il 60%, era ancora destinata a carbone, gas e petrolio. La direzione intrapresa lascia ben sperare: tra cinque anni è possibile che le fonti rinnovabili arrivino a coprire più della metà del fabbisogno globale.
A limitare l’ottimismo è però il fatto che gli investimenti nelle energie sostenibili sono per l’85% in capo ai paesi avanzati, compresa la Cina, mentre solo il 15% riguarda i Paesi in via di sviluppo, dove i costi della transizione sono doppi rispetto alle econome più ricche. Detto con parole semplici: se si vuole uscire dalla condizione di Paese povero è molto più conveniente ricorrere ai combustibili fossili che alle energie rinnovabili o al nucleare. I grandi sforzi dell’Occidente rischiano di essere vani: è un po’ come se in una grande città tutti si impegnassero ad andare lavorare in bicicletta, ma fuori le mura a produrre energia vi fosse una gigantesca centrale a carbone.
È per questo che, anziché dividerci su piccole battaglie locali, o arroccarci su posizioni ideologiche, dovremmo alzare un po’ lo sguardo e capire che c’è una sfida da affrontare insieme come popolazione della Terra. Ricordando l’appello profetico di papa Francesco a favore di un fondo per il clima alimentato dalle risorse destinate alle armi, è decisivo tenere presente che i paesi meno avanzati, per tenere il passo della transizione energetica, dovrebbero decuplicare gli stanziamenti attuali: è chiaro che da soli non ce la possono fare. E proprio di questo si parlerà alla Cop 29 di Baku.
L’innovazione e la ricerca tecnologica restano i migliori alleati nella sfida climatica, ma la differenza dipenderà soprattutto da una componente che afferisce all’animo umano: la solidarietà. Per una volta dovremmo essere capaci di farla entrare in gioco prima e non, come avviene spesso, quando il danno è ormai stato fatto.