
Giorgia Meloni e JD Vance - Ansa
La speranza degli stakeholder italiani è che il silenzio della premier sui dazi nasconda una strategia per limitare i danni oppure, ancora meglio, una trattativa già in corso, magari con “l’amico” Elon Musk. In questo senso la notizia di un’imminente visita in Italia del vicepresidente americano, JD Vance, è un segnale confortante. Il braccio destro di Trump dovrebbe venire dal 18 al 20 aprile (o almeno questo è quanto sostiene l’agenzia Bloomberg), e pare che abbia anche espresso il desiderio di incontrare il Papa. Vance aveva già manifestato il suo apprezzamento per l'ospitalità riservata a sua moglie Usha durante la visita con il figlio per gli Special Olympics di Torino, palesando l'intenzione di venire in Italia. Al momento, però, il viaggio non è ancora stato confermato ufficialmente.
Nel frattempo la preoccupazione per i dazi di Trump cresce di ora in ora. E nella maggioranza, nonostante Meloni si sia impegnata a mantenere un filo diretto con Washington, nessuno prova a nascondere i timori. «Sono preoccupato nel momento in cui si dà una immagine di una guerra commerciale che non coinvolge solo Ue e Stati Uniti ma, a seconda dei giorni, Canada e altri Paesi – ragiona il ministro per gli Affari europei, Tommaso Foti –. Dalle guerre commerciali non è mai scaturita la fortuna dei popoli. E su questo dobbiamo essere molto chiari. Non so quale sarà l'entità dei dazi proposti, ho una mia idea al riguardo e cioè che vi sia una volontà ben precisa di trattare da parte di Trump». Von der Leyen ha dato uno spazio per dire “ragioniamo”. Il mio è un invito alla ragione. Evitiamo di farci male». Anche Salvini ha chiarito che a suo avviso non è il caso di rispondere agli Stati Uniti con le stesse armi, sarebbe «scelta infelice». Per questo si è augurato che Von der Leyen «sia stata fraintesa o tradotta male», quando ha detto che l’Ue è pronta a reagire. «Fare la guerra agli Usa – ha chiosato il vicepremier leghista – non è intelligente, le cose vanno risolte al tavolo».
L’attivismo leghista non è però gradito ad Antonio Tajani, che invece preferirebbe che a trattare con Trump fosse l’Ue, perché «non si può andare ognuno per conto proprio. Il leader di Forza Italia ha chiarito che come stato nazionale «l’Italia non può avere una politica commerciale» e «decidere dove esportare di più o di meno», però «le regole sono decise dall'Ue perché questa è una sua competenza esclusiva». Anche il ministro degli Esteri è però convinto che «una guerra dei dazi non fa bene a nessuno», neanche agli Usa, e ha portato come esempio «i prodotti dell'industria farmaceutica che soltanto l'Europa, e in modo particolare l'Italia, produce».
In ogni caso i più spaventati sembrano i governatori regionali, quasi tutte in stato di allerta per quello che potrebbe accadere oggi. Non a caso il presidente della conferenza delle Regioni, Massimiliano Fedriga, ha chiesto che «si intavoli subito una negoziazione con l'amministrazione statunitense», perché «i dazi non fano bene all'Europa e non fanno bene agli Stati Unit». E come lui molti presidenti hanno fatto lo stesso.
Da fonti vicine a Palazzo Chigi filtra la convinzione che alla fine le nuove tariffe commerciali dovrebbero almeno risparmiare il vino italiano. Forse anche per ringraziare Roma del pressing sull'Ue per escludere il whisky dalla lista dei beni americani da sanzionare. Ciò detto nessuno è in grado di dire con sicurezza cosa accadrà, ma è evidente che sul nodo commerciale si gioca la credibilità della premier come interlocutore autorevole della Casa Bianca.