
La produzione di motori in un'azienda automobilistica - Imagoeconomica
Nessuno “sconto”. Gli Stati Uniti impongono un dazio del 25% su tutte le automobili e i relativi componenti importati dall’estero. Una scossa per l’intera industria automobilistica mondiale, che mette a rischio margini e strategie. Quella introdotta dal presidente Trump è una delle misure protezionistiche più pesanti mai registrate nel settore auto, e ancor più spiazzante perché non ha scadenza, né fasi di transizione. Secondo Bernstein Research, l’impatto sarà enorme: 110 miliardi di dollari all’anno di costi aggiuntivi, pari a circa 6.700 dollari in più (6.050 euro) per veicolo venduto.
Per molte case automobilistiche, i dazi al 25% si tradurranno in tagli alla produzione o alla gamma, licenziamenti e una corsa affannosa alla rilocalizzazione industriale verso gli Usa. Sempre sulla base degli studi di Bernstein Research i marchi più penalizzati sono Volvo, che importa quasi tutti i suoi modelli negli Usa dall’Europa o dalla Cina, con margini già ridotti; Hyundai e Kia che hanno una base produttiva in Nord America, ma gran parte dei loro componenti arriva ancora dall’Asia; e le tedesche Volkswagen (per la componentistica), Mercedes e Bmw, che importano in Usa molti dei loro modelli di lusso. «Una guerra commerciale di questo tipo comunque penalizzerà tutti: i costruttori globali e i consumatori, sia americani che europei», commenta Michele Crisci, Presidente di Unrae, l’associazione dei produttori stranieri in Italia.
Nel 2024, secondo i dati del Dipartimento del Commercio, è stato il Messico il principale Paese di origine per l'export di autoveicoli in Usa, con un valore di 78,5 miliardi di dollari e 2,96 milioni di unità spedite oltre il confine meridionale degli Stati Uniti. Al secondo posto il Giappone con 1,377 milioni di veicoli, mentre al terzo c’è la Corea del Sud, che ha esportato 1,54 milioni di mezzi. Seguono il Canada (1,06 milioni di veicoli) e la Germania. Che in realtà è il Paese con il maggior valore unitario delle sue esportazioni: 24,8 miliardi di valore con appena 446.566 veicoli. Dunque, ogni auto esportata dai tedeschi negli Usa vale oltre 55.600 dollari, quasi il doppio dei veicoli degli altri Paesi.
L’Italia è colpita soprattutto in “seconda battuta”. «Nel 2024 sono state esportate dal nostro Paese negli Stati Uniti meno di 30mila vetture in tutto», spiega Dario Duse, responsabile Emea del Team Automotive e country leader di AlixPartners. Non saranno quindi i grandi costruttori a soffrire particolarmente i dazi - Ferrari nel frattempo ha già aumentato del 10% i propri listini per assorbire il colpo - quanto invece la componentistica italiana. La nostra filiera è fortemente integrata nelle attività produttive tedesche, al punto che oggi dal 10 al 30% di un'auto assemblata negli impianti di Volkswagen, Bmw o Mercedes ha origini italiane. L’anno scorso, secondo i dati di Anfia, la Germania ha importato ben il 19,9% dell’intera produzione di componentistica del nostro Paese. Dunque i dazi statunitensi che penalizzano i tedeschi, hanno un impatto indiretto anche sul nostro tessuto industriale automobilistico, formato da 1.200 aziende che danno lavoro a 170mila persone e fatturano 59 miliardi di euro.
L’Italia sotto la voce “mezzi di trasporto”, esporta negli Usa veicoli per 7,9 miliardi di euro. Cifra che include yacht, navi, metropolitane, e le auto della nostra “Motor Valley”. L’anno scorso, le province di Modena e Bologna hanno venduto negli Stati Uniti veicoli per 2,6 miliardi di euro, il 75% dell'intero export automobilistico nazionale: ben 1,6 miliardi fanno riferimento all'area modenese grazie a Ferrari, e 1 miliardo a quella bolognese, dove ha il suo impianto la Lamborghini. Il Piemonte ha incassato in Usa 370 milioni e la Campania circa 318 milioni.
Per quanto riguarda i marchi, il gruppo Stellantis considera centrali gli Stati Uniti: non per quanto esporta (circa 20mila auto nel 2024) ma per quanto vende, quasi esclusivamente con i marchi Jeep, Ram, e Dodge (1,4 milioni di veicoli per 63,5 miliardi di euro di fatturato). Per sua fortuna, li produce su territorio americano, dove ha 75.000 dipendenti e 12 stabilimenti, due per l’assemblaggio, sei per i motori, tre per le trasmissioni e sette per la lavorazione meccanica. Per questo John Elkann ha giocato d’anticipo tornando da Donald Trump - e questa volta alla Casa Bianca - per un incontro proprio alla vigilia dell’annuncio dei dazi, ribadendo la volontà di investire ulteriori 5 miliardi di dollari «per aumentare la produzione negli Stati Uniti e dare stabilità - ha detto Elkann -alla grande forza lavoro americana».