giovedì 8 luglio 2021
Il report dell’associazione ambientalista Terra! spiega come si butti via in modo assurdo tanta parte delle produzione. Un insulto ai poveri
Frutta in un supermercato

Frutta in un supermercato - Ansa

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Bello non sempre è buono. Il comparto ortofrutticolo italiano attraversa da anni una crisi causata da normative inadeguate, pressioni insostenibili della grande distribuzione, cambiamenti climatici. Tutti vogliono frutti perfetti, uguali, standardizzati. Il resto, anche se buono e sano, spesso non viene nemmeno colto. E le aziende chiudono. Succede per le pere in Emilia Romagna, le arance in Sicilia, i kiwi nel Lazio. Resistono le mele in Trentino- Alto Adige.

Un quadro allarmante, analizzato dal rapporto – dell’associazione ambientalista Terra! – Siamo alla frutta. Perché un cibo bello non è sempre buono per l’ambiente e l’agricoltura. «La Gdo, l’Ue e la miopia delle istituzioni nazionali» stanno firmando «la condanna a morte dell’intero comparto agricolo, già alle prese col cambiamento climatico, causando la perdita di migliaia di ettari di terre coltivate», spiegano i ricercatori Fabio Ciconte, direttore dei Terra!, e Stefano Liberti.

Proprio il 2021 è stato dichiarato dall’Onu “Anno internazionale della frutta e della verdura”, per incrementarne il salutare consumo.

Il valore della produzione ortofrutticola in Italia nell’ultimo anno è stato di 11,4 miliardi di euro, il 23,2% del totale dell’intera ricchezza generata dal settore primario. Quasi la metà grazie alla frutta.

Nei supermercati la selezione è implacabile, come stabilisce il Regolamento Ue 543/2011, modificato dal 408/2019. Fino al 2008 stabiliva addirittura la curvatura massima di cetrioli e carote. L’eccellenza è la categoria “Extra”, segue la “I”. Ma già la “II”, comunque buona e sana, va svenduta nell’Est Europa o alle industrie di trasformazione. Prezzi stracciati che spingono molti produttori a lasciar marcire tutto nel campo. O a chiudere.

La Fao ricorda che il 33% della produzione mondiale non viene consumata. Nel 2019 erano 690 milioni le persone che soffrivano la fame. Come uscirne?


Pere, kiwi, mele e arance che non rispettano le regole sul "calibro" previste dall’Ue o i canoni estetici fissati dai supermercati restano a marcire nei campi

La Ue sta rivedendo le norme sugli ortofrutticoli, «un’opportunità – commenta Terra! – per mettere fine all’eccesso di regola- mentazione». Anche l’Italia «può incentivare la commercializzazione di prodotti “fuori calibro”». E la Gdo è tempo che acquisti anche «frutta con lievi imperfezioni, senza abbattere i prezzi, tamponando la crisi del settore e facendo un’operazione culturale». Terra! analizza quattro prodotti: pere, arance, kiwi e mele.

La pericoltura, vanto dell’Emilia-Romagna, ha - letteralmente - perso terreno: dai 42 mila ettari del 2000 a 30 mila. Inverni caldi, gelate improvvise, diffusione della cimice asiatica, rigidi capitolati sul “calibro”.

Ma anche scarsa capacità aggregativa: nella terra delle coop, il consorzio Opera ha raggruppato solo il 25% delle imprese. Crisi anche per le arance in Sicilia: dai 207 mila ettari del 2000 agli 82 mila del 2019, da 3 milioni di tonnellate a 2,6. A Siracusa e Catania imperversa il virus tristeza. L’annata è stata abbondante, ma la siccità ha ridotto le dimensioni.

E i supermercati comprano in Spagna: secondo Ismea importazioni cresciute del 5%, esportazioni del 2,7%. Poi la pandemia, con la chiusura di alberghi, mense e ristoranti, ha costretto i produttori a svendere all’industria di trasformazione. Poi c’è il kiwi. L’Italia è il terzo produttore mondiale, dopo Cina e Nuova Zelanda. Dal 2014 la produzione italiana è calata di quasi 100 mila tonnellate. La morìa di piante sarebbe favorita - secondo il Crea - dai cambiamenti climatici.

E le mele? Una filiera che resiste. L’Italia, 2 milioni di tonnellate su 53mila ettari, è seconda in Europa solo alla Polonia. In Trentino-Alto Adige c’è il 50% delle coltivazioni e il 68% della produzione. Esportiamo per 800mila euro, importiamo per 50 milioni. Grande la capacità aggregativa: il consorzio Melinda, 16 cooperative, gestisce tutto. E conserva i prodotti nei frigoriferi naturali scavati nella roccia dolomitica. E se grandina? Hanno venduto alla Gdo inventando il marchio Melasì, la mela bella anche se ha qualche neo. Come le star del cinema.

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